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T A S Y A

Passo i polpastrelli sul tessuto in pelle del divano, sentendo i capelli mossi dall'aria condizionata solleticarmi il collo. A saperlo prima avrei indossato dei pantaloni lunghi, non degli shorts, ma l'ansia è talmente tanta da farmi sudare nonostante il freddo.
Ogni volta che metto piede in questo studio mi innervosisco, come se ci fossero un miliardo di telecamere puntate su di me pronte a registrare ogni mia parola sbagliata.

Perché dovrei esporre i miei segreti più intimi a uno sconosciuto?
Si dice sia più facile, in realtà mi preoccupa perché potrebbe farsi un'idea sbagliata di me.
Fare lo psicologo è il suo lavoro, lo so, ma chi glielo fa fare? Ascoltare persone piene di problemi, con una vita triste, l'animo tormentato... Aiutare qualcuno è una bella cosa, ma sapere di non esserci riusciti non è una cosa che si può superare facilmente.

Sento i suoi passi, seguiti dallo strisciare della sedia sul pavimento. «Ciao, Tasya. Come ti senti oggi?» chiede, con la sua solita voce pacata.

Faccio spallucce. «Non sento nulla, come al solito. Vado avanti, sopravvivo e questo è l'importante. Giusto?» dico, aspettando un suo rimprovero.
Afferma sempre che a me piaccia divagare, non rispondere alle sue domande per farne altre, cercando di cambiare il soggetto da me a lui.
Tutto ciò che faccio è evitare di aprirmi troppo: chi dice che poi non mi pugnalerà alle spalle?

«Sopravvivi perché lo vuoi o perché sei costretta a farlo?»

«Perché lo vogliono gli altri» rispondo.

«Gli altri?»

Sospiro. «Già. Ho riallacciato i rapporti con Zacharias, il ragazzo dell'incidente, e dopo questa seduta mi incontrerò anche con Annabeth. È una bella cosa per lei, immagino, ma stare con lui mi ha fatta sentire la cattiva della situazione. Gli ho proposto un piano per vendicarci della madre di Calvin, ma lui ha ribattuto dicendo che una festa nella quale potrebbero far pace sarebbe la cosa migliore» spiego, giocherellando con un braccialetto che porto al polso. «È sempre così buono, sa sempre cosa dire e cosa fare e ritiene che quella donna meriti una seconda possibilità quando non è così. È un mostro, non una persona e io voglio vendicarmi. Non merita niente.»

«E perché ti ha fatta sentire cattiva?»

«Perché lo sono, probabilmente. Solo che accanto a lui me lo sento ancora di più.»

«Posso dirti il mio parere, Tasya?» Tanto lo farai comunque, penso. «Credo che questo tuo desiderio di vendetta sia condizionato dal tuo modo di vedere il mondo, sempre nero e ricco di negatività e ansia. Vuoi sfogare la tua rabbia repressa, quella nata da tutte le ingiustizie che hai subito, e lo fai colpendo le persone che ti stanno attorno.»

«Non è affatto vero!» esclamo «Tutto ciò non ha niente a che vedere con la perdita della vista.»

«Eppure te la prendi con gente innocente» ribatte.

«La madre di Calvin non è innocente!» dico, quasi urlando. Sento la rabbia bruciare nel petto, così per calmarmi stringo le mani in un pugno sentendo le unghie affondare nei palmi. «Ha abbandonato suo figlio immerso in una pozza di sangue, non ha nemmeno chiamato i soccorsi! E se Andrew non si fosse presentato? Il mio migliore amico sarebbe morto.»

Cala il silenzio.
Tutto ciò che sento sono il mio respiro pesante e carico d'ira e quello del mio psicologo, più leggero e rilassato.
Sfoglia qualche pagina, che immagino di un colore giallo come se fossero vecchie pergamene, e ticchetta la penna sul bracciolo della sedia. Io, nel frattempo, sento una forte morsa allo stomaco dettata dall'ansia che mi scorre in tutto il corpo.
Chiudo gli occhi, cercando di rilassarmi: immagino che le pareti di questa stanza – probabilmente bianche – siano verdi acqua e che il divano sia in realtà il mio letto.
Se non posso vedere questo studio, non deve essere per forza la cella in cui sono stata rinchiusa insieme a uno strizzacervelli.
In realtà è la mia accogliente camera.
È la mia camera, è la mia camera, la mia camera...

Dietro ai miei occhi [Cartaceo disponibile] Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora