Regionale veloce 2311 (parte I)

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Domenico teneva la testa appoggiata al finestrino, guardando fuori con poca partecipazione mentre la playlist continuava a scorrere. Il telefono era appoggiato sulla valigia che occupava gran parte dello spazio fra i sedili, facendo sì che nessuno si fosse seduto e che Niccolò avesse un posto riservato.

Fino all'ultimo, Domenico aveva sperato di viaggiare in prima classe su un treno alta velocità, ma Marta aveva trovato il modo di far passare loro più tempo possibile su una dannata scatola di metallo. Prima aveva preso i biglietti per un regionale veloce, poi quelli per un treno notte.

Ci sarebbero invecchiati in quel viaggio, ne era sicuro. O forse sarebbero morti prima, con il treno fermo in galleria senza acqua e cibo. Il pensiero di non poter tenere fra le mani il piatto con la cassata preparata dalla nonna gli sembrava un'idea più terribile di quella di dover presentare Niccolò – studente di ingegneria – al padre – architetto – come nientemeno che il proprio ragazzo. Si passò una mano sul volto, chiedendosi perché Marta avesse avuto quella dannata idea al posto di restare a studiare microbiologia.

Fu solo quando il telefono iniziò a vibrare che Domenico si riscosse dallo scenario apocalittico che si era dipinto in faccia. Non aveva idea di come arrivare al matrimonio presentando Niccolò: lo conosceva da anni, spesso era anche rimasto a dormire sul divano dopo le serate alcoliche organizzate da Marta. Ogni mattina Niccolò lo aspettava a quel palo, percorrendo quei seicento metri fino all'università ridendo e scherzando su qualsiasi cazzata gli passasse per la mente. Certo, lo riteneva davvero carino con quei capelli castani e gli occhi di un marrone più chiaro, che d'estate sembravano tendere al verde. Scosse la testa, prendendo il telefono sul cui schermo campeggiava l'anteprima del messaggio di Niccolò corredato da almeno dieci faccine spaventate.

-DIMMI CHE NON SEI SUL REGIONALE VELOCE. TI PREGO.

-E invece sì... rispose a Niccolò. Come lesse il messaggio, l'aretino sbiancò, ricordandosi improvvisamente che il treno dell'una e tredici – che spesso aveva preso – arriva alle quattordici e quindici ad Arezzo. Controllando l'orario, Niccolò si tolse ogni dubbio: Marta arrivava direttamente dalle profondità dell'inferno. Seduto sulla propria valigia, guardava con aria affranta il treno che lentamente si stava avvicinando, preparandosi mentalmente a un viaggio di almeno due ore – ritardi esclusi – per arrivare alla prima tappa.

«Il treno regionale veloce 2311 di Trenitalia delle ore quattordici e quindici per Roma Termini è in arrivo al binario tre. Attenzione. Allontanarsi dalla linea gialla». Niccolò avrebbe voluto accendere un cero per avere la protezione divina necessaria al sopravvivere fino a Roma sentendo tutto l'elenco delle fermate del treno.

-Su che carrozza sei? Scrisse a Domenico.

-Ma che ne so. Una.

-Maledetto cittadino.

-Chetati, pendolare.

-Sporgiti, metti fuori un drappo, un gonfalone, una bandiera, un integrale, un teorema, qualsiasi cosa. Non posso girare su tutto il treno con il trolley.

-Minchia che idiota che sei.

Domenico si tolse le cuffie, sistemandole con poca cura nella tasca dello zaino e abbassando il finestrino. Si guardò intorno per poi trovare Niccolò in piedi davanti a lui con una valigia che gli arrivava alla vita e un'aria da funerale stampata in faccia.

«Muoviti, campagnolo».

Niccolò, continuando a pregare per una protezione celeste, salì sul treno, sistemando la propria valigia insieme a quella di Domenico, andando a togliere definitivamente la possibilità di sedersi su quei sedili ad altre persone: i due ragazzi erano seduti di fronte, con le valigie incastrate vicino ai loro piedi.

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