Intercity notte 35935 (parte I)

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«Intendi parlarmi o tenermi il muso fino a Catania?»

«Non posso parlare con esseri inferiori che non hanno le minime conoscenze del Trono di Spade. E che fanno matematica».

«Ma perché voi ingegneri ce l'avete con tutti?»

«Boh».

«Ah» fece Domenico grattandosi una guancia. «Comunque, ti pago qualsiasi cosa commestibile tu voglia domani se torni a parlarmi».

«Qualsiasi cosa? Affare fatto» gli disse Niccolò sorridendo sornione. Tale e quale al gatto, pur di mangiare le trova tutte, pensò Domenico trattenendosi dall'allungare le mani e strozzare il suo compagno di viaggio così stressante.

«Possiamo avviarci al binario ora?»

«E va bene, va bene. Tanto sono solo le nove».

«Almeno ci sistemiamo per bene prima che il treno parta».

Si avviarono in silenzio verso il binario dove si trovava il treno notte, scansando frotte di turisti e persone singole, tutti con il naso all'insù a indicare il cartellone degli arrivi, anche quel giorno costellato di ritardi.

«C'è il triplo del casino di Santa Maria Novella. Quanto li odio i turisti che si fermano in mezzo, così, a caso» borbottò Niccolò dopo aver tirato l'ennesima spallata a una donna che non accennava a spostarsi.

«Non fare il misantropo. Pensa agli arancini».

«Gli arancini non sono persone. E sono meglio di quelle» sibilò Niccolò allargando il braccio che non teneva la valigia. Si voltò subito verso l'uomo che aveva colpito per sbaglio, chiedendo scusa nelle tre lingue che conosceva - italiano, inglese e tedesco - per poi allontanarsi velocemente.

Domenico lo guardò sospirando: da una parte, la sua goffaggine lo rendeva ancora più carino, dall'altra poteva essere un proiettile vagante pronto a far danni. L'unica cosa che sperava era che sul treno notte avesse dormito senza russare - in caso contrario era pronto al combattimento: non aveva portato la pistola ad acqua, sapientemente riempita con quella del lavandino del bagno, per nulla. Avrebbe preferito la trombetta da stadio, ma non voleva beccarsi una denuncia per disturbo della quiete pubblica da parte degli altri passeggeri. L'avrebbe usata a Catania, in caso.

Raggiunto il binario e il treno, Niccolò fu il primo a salire mentre Domenico si guardava intorno, come a voler studiare il tutto. Almeno non erano nella carrozza con i posti a sedere, si disse, prima di sollevare una valigia alla volta e posarla sul piccolo pianerottolo. Salì a sua volta i die gradini, reggendosi al palo che si trovava a lato. Niccolò lo precedeva, alternando lo sguardo tra i biglietti che teneva in mano e i numeri delle cuccette.

«Eccoci! A te l'onore di entrare, principessa dei teoremi».

Domenico si batté una mano sulla fronte mentre Niccolò continuava a sorridere, indicando l'entrata della cuccetta. Sorriso che si trasformò in una smorfia quando Domenico, senza farsi troppi problemi, gli passò con il trolley sopra le punte dei piedi.

«Il corridoio è stretto e tu sei come la base: un piano fisso».

«Eh?»

«Non fate meccanica razionale?»

«Se si chiama "meccanica" cosa ce ne facciamo noi civili?»

«Giusta osservazione io prendo il letto sopra comunque!»

«Ma» Niccolò piegò il labbro, entrando nella cabina e osservando Domenico che aveva già iniziato a tirare fuori il suo pigiama. Lo spazio era angusto, tutto sembra schiacciato tra la porta e il finestrino, lasciato aperto. Non erano ancora partiti, ma l'aria era già calda e opprimente.

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