1 - I funerali non sono affatto noiosi

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Il giorno in cui morì nonno Manna Krann fu anche il giorno più imbarazzante della sua vita.
Non conosceva la malattia che lo aveva devastato, non aveva neanche il minimo interesse per quel vecchio rugoso, ma non lo aveva mai neppure odiato.
Durante i suoi ultimi istanti di vita la casa era ancor più livida del solito e su tutto era sceso un prematuro cordoglio. Mobili, ninnoli, orologi a muro... tutto aveva trattenuto il respiro.
C'era un modesto e rispettoso numero di parenti, di cui Portia Kora non conosceva neppure il nome, disposti in fila per dare l'ultimo saluto al vecchio capostipite degli Ossidiana.
La nonna Sumia Heri, nonostante il suo consorte fosse in fin di vita, non aveva lasciato la piccola stanza di lettura al piano inferiore. Era il suo modo di prepararsi all'imminente perdita?
Sua madre invece sembrava realmente addolorata, così provò a stringerle la mano. In fondo aveva quasi undici anni e iniziava a sentirsi grande.
Lea Des di rimando le rivolse un sorriso tirato, dicendole di andare a salutare il nonno con parole di conforto, così Portia Kora fece la brava e si mise in fila.
Conforto? Che avrebbe potuto dire a quell'uomo acido che le aveva rivolto sì e no tre parole da che era nata?
Mentre la sua mente cercava una frase che non sembrasse troppo ovvia, gli occhi acquosi del vecchio la intercettarono.
Era disteso sulla sua poltrona di pelle, con tanto di pantofole e coperta sulle gambe.
Odorava di morte, ma lei cercò lo stesso di rispondere al suo sguardo in modo gentile.
All'improvviso le labbra increspate si aprirono e la testa calva del vecchio iniziò a tremare: voleva dirle qualcosa?
La piccola tese l'orecchio e fece un passo in avanti con le sue scarpette lucide, nere come il vestito.
«Che tu... sia... dannata. Trovatella bastarda!»
Le ultime parole di Manna Krann, seguite da un violento fiotto di vomito e sangue, colpirono la bimba in pieno, facendola indietreggiare.
Portia Kora si ritrovò ricoperta di quel liquido caldo e disgustoso; la gente intorno a lei, invece di prestarle aiuto prese le distanze con un balzo, come se fosse stata in qualche modo contagiosa.
Persino sua madre rimase immobile a bocca aperta, indecisa se pensare alla morte appena sopraggiunta del suocero o alle disgustose condizioni della figlia.
A lei non rimase che scappare. Nel bagno dalle mattonelle blu pianse a lungo e si strappò i vestiti di dosso: non voleva chiedersi il perché di tanto odio nei suoi confronti, era troppo impegnata ad allontanare quella roba schifosa dalla sua pelle, dal viso, dai capelli...
Sapeva che era stata adottata in tenera età. Anche se nessuno si era espresso apertamente, i commenti malcelati degli adulti erano stati molto eloquenti e col tempo, senza troppi drammi, aveva accettato la cosa. Sopportava il distacco della sua famiglia, ma non la capiva, e adesso, il commiato disgustoso di quel nonno burbero, era la conferma che non sarebbe mai stata una degli Ossidiana.
Quella stessa sera, Lubren Zero fece riunire l'intera casata nel salone ovale.
L'ampio spazio che occupava gran parte del piano inferiore, comprendeva un'area ellittica dal pavimento lucido e dalla complessa trama tendente all'antracite. Il colore del loro nome, l'ossidiana, permeava l'intera casa come se il lutto dovesse durare in eterno.
Lubren Zero sospirò, alzando lo sguardo. Le pareti della sala erano curve e grazie a uno strano effetto ottico parevano innalzarsi per decine di metri, fino a una lontana zona luminosa che pareva non avere fine.
Assomigliava di più a un cortile immerso nel crepuscolo e le pareti sembravano ospitare diverse nicchie, anfratti e finestre, orientate verso il basso, quasi per agevolare l'osservazione di ciò che accadeva quotidianamente tra quelle mura.
Lubren Zero girava attorno al tavolo enorme a forma di tartaruga, con il suo solito atteggiamento composto, mentre gli altri trentasei membri della sua stirpe attendevano di consumare la cena in onore del morto.
Il ventenne servì personalmente a ognuno, con gran calma, una porzione di stufato appena sufficiente per placare la fame, ma abbastanza misera da suscitare la voglia di averne ancora.
L'aveva preparato con le sue mani, come imponeva la tradizione.
Il vecchio Arcano Manna Krann era morto da poche ore e lui, suo nipote, non solo doveva rendergli onore con la cerimonia dell'addio, ma era obbligato a prendere il suo posto.
Perché lo aveva scelto come suo erede?
Secondo il volere del defunto, l'intera famiglia dell'Ossidiana avrebbe dovuto obbedirgli ciecamente, così il nuovo tutore, con estrema lentezza, sedava gli animi e placava le polemiche sul nascere con quella squisita pietanza.
A ciascuno passò almeno una volta nella mente che forse uno degli ingredienti di quello stufato fosse il frutto dei sortilegi del giovane Arcano, successore degli averi di quell'antica progenie e custode dei suoi segreti.
Il giovane incrociò le dita davanti al mento e scrutò i commensali.
Sembravano tutti soddisfatti, si disse, prima di incontrare gli occhietti furbi di Portia Kora. La sua sorellina, che in quel momento lo osservava di rimando, si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato; era solo una coincidenza che fosse diventata il bersaglio degli ultimi rantoli del vecchio morente.
Di sicuro la piccola si sarebbe portata dietro quel ricordo spaventoso, ma col tempo la cosa avrebbe assunto le tinte di un semplice aneddoto. D'accordo, forse un macabro aneddoto.
Lea Des sedeva al tavolo come una statua di cera. Si era informato sui fatti, scoprendo che come al solito era stata inadatta al suo ruolo di madre. Non aveva aiutato la figlia undicenne quando, ricoperta di sangue e vomito, si era rifugiata nel bagno, ma era rimasta stordita e inerte come una bambola, conscia del suo personale momento di dolore.
L'egoismo di quella donna non aveva limiti.
Portia Kora d'altro canto non faceva che idealizzarla, malgrado sapesse che non era la sua vera madre. A volte la trovava a guardare il suo ritratto appeso nell'atrio e ogni volta coglieva l'ammirazione per quell'unica icona femminile. Lea Des era stata una bella donna in gioventù: il suo ovale rimandava immagini esotiche, ma i suoi occhi a mandorla nascondevano una freddezza insolita.
«Pensi che dovremmo ridurlo in cenere all'alba?» Una voce vicina e baritona lo fece sussultare.
«Chiedo scusa mio Arcano, non volevo disturbarti» concluse imbarazzato Lucio Sesto, il suo più fidato collaboratore.
Lubren Zero si mosse a disagio sulla sedia massiccia; non era ancora avvezzo a sentirsi chiamare con quell'appellativo.
Si schiarì la voce, diede disposizioni per la salma e bevve dal calice di fronte a lui, un vino che vantava più anni dei suoi.
L'intera tavolata seguì le sue mosse e in completo silenzio si apprestò a bere a sua volta. Doveva abituarsi a tutto questo in fretta, prima di restare schiacciato dal peso di ogni responsabilità.
Portia Kora seguiva ogni movimento di Lubren Zero. Suo fratello era l'unica cosa che la teneva legata alla realtà, l'emblema della sicurezza e la vera linea di demarcazione dal mondo degli adulti.
Quella giornata era stata lunga e terribile. Lubren Zero sapeva che quel vecchio l'aveva maledetta prima di morire? No, non lo aveva sentito nessuno imprecare, ma di sicuro era a conoscenza del suo disgustoso gesto di addio. Perché non era andato da lei a consolarla? Dopo questi sciocchi pensieri si vergognò di se stessa, pensando al nuovo titolo che aveva ereditato il fratello e a tutte le sue conseguenze.
Arcano della famiglia dell'Ossidiana. Prima era stato il nonno ad avere quel nome, adesso toccava a lui.
Non era una cosa da poco e a osservarlo bene si capiva che era nervoso, a discapito della sua solita calma.
Non aveva toccato cibo e se ne stava seduto come un rapace. Era a torso nudo nonostante la stagione, il suo pomo d'adamo era stato tatuato e messo in evidenza e i suoi capezzoli trafitti da pendenti d'oro bianco, a simboleggiare che l'Arcano avrebbe dovuto essere maschio dalla testa ai piedi.
Portia Kora si concesse di assaporare lo stufato che lui aveva cucinato e servito di persona, ammettendo che forse era la cosa più squisita che qualcuno avesse mai cucinato.
Si sentì privilegiata per l'onore che le aveva concesso nel mostrarle la radice che coltivava segretamente e che costituiva l'ingrediente sconosciuto, di cui molti inconsciamente intuivano la presenza.
Il suo sapore era divino e lei cercò di assimilare parte del potere, constatando che a ogni boccone si sentiva sempre più in pace con se stessa.
Cleme Nitzer, una sorella minore di suo padre, subì altresì il fascino che può provocare un palato soddisfatto: per la prima volta Portia Kora la vide sorridere con aria sognante.
Anche l'altro suo zio sembrava compiaciuto del cibo.
Nonostante il pasto fosse l'elogio funebre all'anziano genitore, sorrideva massaggiandosi la pancia prominente, con le dita grassocce corredate da anelli d'argento.
Quei parenti abitavano in un altro distretto, per questo i loro incontri erano piuttosto radi.
Era una fortuna non averli tra le scatole troppo spesso.
Più esaminava i suoi zii, più si chiedeva cosa avessero in comune con suo padre.
Papà...
Che fine aveva fatto?
Dov'era il suo papà altissimo con il panciotto pieno di bottoni e le mani grandi? I suoi capelli erano lunghi e neri come le ali di un uccello notturno, le sopracciglia folte l'avevano solleticata decine di volte, facendola ridere. E che dire dei loro momenti di raccolta? Ogni fine del mese avevano inspirato insieme le essenze dei sassi di fiume, raccontandosi storie incredibili di tesori nascosti.
Avrebbe fatto in tempo a vederla recitare assieme alle compagne di scuola? Ormai non ricordava più l'ultima volta che aveva parlato con il suo adorato genitore; lui semplicemente era uscito in missione per qualche giorno e non era più tornato.
I giorni da due erano divenuti venti, poi si erano sommati i mesi... alla fine lo sconforto generale della famiglia era divenuto panico, poi di nuovo tormento, per lasciare il posto a una debole speranza.
Nessuno si degnava di darle una spiegazione.
Neppure Lubreen Zero le aveva fornito qualche dettaglio all'altezza della sua smania di sapere.
Era quasi un anno che Sarje Ques Nam non tornava dall'estremo Tule del sud, dove era andato in missione. Il padre di quella oscura famiglia era un uomo così apprezzato dall'ordine militare, che era stato decorato addirittura col terzo nome, cosa assai rara e chiaro simbolo di prestigio.
Se fosse stato presente quel giorno, il vecchio Manna Krann avrebbe scelto lui come nuovo Arcano?
Portia Kora, alla luce dell'ultimo saluto che le aveva rivolto il nonno, non riusciva a spiegare tanto astio nei suoi confronti. Perché l'aveva maledetta? Perché odiare tanto una bambina che aveva ignorato per tutti quegli anni? Anche se non avevano lo stesso sangue, faceva parte della famiglia.
Era così, vero?
Mentre nonna Sumia Heri aveva riempito d'affetto la sua infanzia, l'altro aveva sempre fatto in modo di evitarla.
Forse, si ripeteva, la colpa era da attribuirsi alla sua totale mancanza di visioni, particolarità e orgoglio degli Ossidiana da secoli.
Mentre Portia Kora si perdeva in vaghe congetture, Lubren Zero ordinò ai dipendenti di sparecchiare la tavola.
Sembrava che i parenti avessero accettato il suo nuovo ruolo; non avrebbero comunque potuto opporsi in alcun modo, quindi era meglio lasciarsi corrompere dal gusto della sua terghenia rossa, insuperabile al palato ma difficile da gestire.
Quando si alzò dalla sedia attirando l'attenzione dei presenti, diede inizio a un lungo monologo che nessuno ebbe l'ardire d'interrompere.
Sarebbe stato l'Arcano fino al giorno della sua morte, così pronunciò il suo discorso facendo finta di non sentire il metaforico macigno che calava su di lui come un peso morto.
La sorella non udì quasi niente perché cadde addormentata con i gomiti sul tavolo, suscitando le risa delle cugine più grandi.
Di quel giorno le rimasero solo alcuni ricordi: uno stufato delizioso, il pianto di sua nonna e due braccia accoglienti che finalmente la sollevavano senza destarla dal sonno, le braccia di chi l'avrebbe protetta per sempre.

Portia Kora - Il confine dell'OssidianaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora