I just want to look you in the eye

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Seguendo le teorie nelle quali credeva, ella cercò di crearsi l'amore.
-Madame Bovary, Gustave Flaubert

Il mio corpo fece un'ottima divisione dei ruoli.
Metà della mia attenzione era posta a quello che mi stava intorno: la mia camera in penombra, le veneziane abbassate, le luci spente, il fosso che stavo creando sul letto stando sempre nella stessa posizione. La gente che andava e veniva da camera mia.
L'altra metà stava concentrata sulle funzioni interne: i miei bisogni, il tempo che passava, il mio organismo che mi imponeva di bere o mangiare. I miei occhi che erano troppo stanchi di guardare al buio. Il mio cervello che si alternava da solo tra il sonno e la veglia.
Ero trasportato dalla meccanica umana, lasciavo lavorare un organo perfetto senza dire nulla, con i suoi ritmi e le sue imposizioni.
Rimasi in quelle condizioni per quarantotto ore.

Mia madre aveva optato per il ritorno alle azioni semplici, che è sempre una buona cosa quando si tratta di un soggetto traumatizzato. Mi parlò solamente in italiano.
«Malcom, tesoro, ti va di mangiare?»
«No, mamma.»
«Dovresti uscire di lì.»
«Lo so, mamma.»
«I funerali sono domani.»
«Okay, mamma.»
Sapevo che lei, probabilmente, la stava vivendo male tanto quanto me. Ben non aveva famiglia: eravamo io e lei, tutto quello che gli rimaneva. Eppure io non riuscivo a girarmi verso la porta, guardavo solo la veneziana abbassata, solo i gradini di sole sulla moquette. Ero ancora nell'università, nella mia testa. Non ero mai uscito.

«Bello, ascolta.»
«Sull.»
«Quando sei entrato, ti sono corso dietro.»
«Okay.»
«Non ho visto lo sparo.»
«Okay.»
«Stavi parlando con qualcuno.»
«Sì.»
«Grace mi ha detto tutto.» niente soprannomi. Interessante.
«Va bene.»
«Non ci credo.»
«Vai in cucina.»
«... ci vediamo dopo?»
Mi raggomitolai fra le coperte, senza rispondere.

«Tua madre mi ha fatta entrare.»
Oh, cazzo.
«Emma, non voglio parlare con te.»
«Malcom, perfavore, mi distrugge vederti così. Fammi aprire le vene-»
«No, va' via.»
«Malcom...»
Sotterrai la testa nelle coperte.

«Signorino, gli va un caffè nero?»
«No.»
«Una brioche?»
«No.»
«Una birra? Anche se non la finisce mai.»
«Voglio restare solo.»
«È a letto da ventiquattro ore.»
«Voglio restare solo, ho detto.»
Sospiro.«Come vuole, signorino.»

Fiordalisi, camelie, spezie. Qualcuno che apre la porta in silenzio ma ha l'accortezza di richiuderla, cardine sh cardine.
«Ti ho portato dei dolci turchi. Sono in cucina. Spero ti piacciano.»
«Grazie, Kanan.»
«Ti facciamo tutti le nostre condoglianze.»
«Okay.»
«Aspettiamo il tuo ritorno non appena sarai in vena.»
«Sì.»
«Posso fare qualcosa per te?»
«No.»

Qualcosa nel mio governo perfetto fatto di quattro mura si spezzò.
Le coperte si spostarono, qualcosa mi coprì la vista delle veneziane (che conoscevo a memoria, erano cinquantadue stringhe verdi), due occhi viola si misero nei miei.
«Scusa.» iniziò Grace, sotto le coperte insieme a me «Volevo solo guardarti negli occhi. So che nessuno lo fa da un po'. Così ho preso iniziativa.»
I suoi occhi erano la cosa più luminosa della stanza. Mi fissavano indagatori, come se fossi chissà cosa di speciale, come se ne valessi la pena.
Avrei potuto mandarla via, ma stesa lì con la coperta fino alla guancia, la testa sul materasso e le ciocche mosse sul viso, mi parve una delle cose più belle del mondo.
«Prendi un cuscino.»
Lei si allungò, prese un cuscino grigio e ci poggiò la testa. Sentii la sua mano sul mio zigomo, fredda come sempre.«Guarda che occhiaie che hai.»
«Non so quanto ho dormito.»
«Troppo poco.»
Scivolò verso di me, o forse io scivolai verso di lei.
«Hai pianto?» riprese.
Scossi la testa.
«Sai in che condizione psicofisica sei, in questo momento?»
Annuii.
«Sai cosa può aiutarti?»
«La consapevolezza.»
Stavolta annuì lei. Si alzò, per la prima volta da due giorni sentii freddo, ma ritornò subito al suo posto con il suo cellulare. Cercò qualcosa e me lo porse.
«Sei sicuro?»
Annuii.
«Leggo io o leggi tu?»
«Leggo io.» gracchiai.«Come va fuori?»
«Come dovrebbe andare quando qualcuno muore.» osservò la mia espressione.«Scusa. Non volevo dirlo. Tua madre sta facendo le pulizie, comunque. Anche se non c'era nulla da pulire. Anche lei ha questo modo di vivere il... molto particolare, sì.»
Allungai la mano e le sfilai il cellulare dalle dita.
«Hai le mani gelide.»
«Lo so. Ho freddo.»
«Lo so.»
Alzai il cellulare sul mio viso, facendo scorrere l'articolo col pollice. La mia mano rimase ferma.
Mentre leggevo, Grace scivolò con la testa sulla mia spalla e il braccio sinistro attorno al mio sterno.
«Stai tremando», mormorò. Io tirai su col naso.
8:03 del mattino. Il proiettile gli aveva oltrepassato le tempie da parte a parte. Non ha sofferto. 8:05 del mattino. Luke si è sparato in gola, il proiettile è uscito dalle scapole. Non ha sofferto nemmeno lui.
Peccato.
«È successo sul serio?» domandai, forse a lei, forse a me stesso, forse a Ben, che viveva ancora nella mia testa.
«Da due giorni.»
Spensi il display, e la stanza tornò nella sua pesante penombra senza aria. O forse mancava a me.«Sono due giorni che provo a svegliarmi.»
«Puoi solo uscire di qui.»
«Mi manca.»
«Lo so.»
«Non l'ho salutato.»
«Al funerale o...»
Le restituii il cellulare, ma non si spostò. Sentivo il suo fiato sotto l'orecchio.«No. Non ho detto nulla, nell'aula. Non ho... magari avrebbe voluto... e non ricordo se...» qualcosa di pesante mi si appiccicò in gola.
«Malcom.»
«Mh-mh.»
«Devi piangere.»
La cosa appiccicata in gola mi salì fino alla lingua. Il soffitto divenne sfocato.
«È morto sul serio?» domandai ancora, mentre quella cosa mi si attaccava alle labbra.
«Due giorni fa.»
Meccanismo di autodifesa per eccellenza: la memoria, come ho detto. Mi uscì un solo, lungo singhiozzo, prima di piombare nel vuoto.

«Ahi.» sibilai.
«Stai zitto.» Grace aveva i capelli legati in una coda, adesso, e stava china sulle mie mani. Rimuoveva con una pinzetta piccoli pezzi di vetro dalle nocche.
Mi sistemai sulla poltrona «Non sei arrabbiata?»
«Perché hai preso a pugni lo specchio?» tolse un frammento di scatto e io mi morsi il labbro.«No.»
«È un comportamento normale?»
«Sì.»
«Ho bisogno di una tisana. Per la gola.»
«Tu hai bisogno di uno specchio nuovo.» ripose le pinzette, pulì le ferite con un panno imbevuto d'acqua tiepida, riprese le pinzette.
«Lo so. Mi dispiace.»
«L'hai già detto.» tolse via una scheggia.
«Ahi!»
«Ti ho detto di sopportare in silenzio.» alzò gli occhi, mi guardò, li abbassò di nuovo.«Parla d'altro.»
«Sullivan.»
«Sullivan sta bene. L'ha presa bene. A meno che qualcuno non gli punti una pistola alla testa, la voce di Poirot non sarà un problema.»
«Dov'è finito Poirot?»
«Fuori.»
Soffocai un'imprecazione «Razza di... Cristo, questa fa male!»
«Lamentarsi in italiano non vale! Ringrazia che non ti servano i punti.» tolse un'altra scheggia dal dito medio, che riprese a sanguinare.
«Sei sicurissima che non servano?»
«Sto per darti un pugno in faccia.»
«Va bene, va ben... no, stronzetta, non ti permettere.» tirai indietro le mani, lei rimase con la bottiglietta di alcool a mezz'aria.«Brucia da impazzire.»
«Malcom, non fare il bambino e vieni qui.»
«No.»
«Malcom Leonardo Parker...»
«Non si pronuncia così.»
«... smettila di avere cinque anni e dammi quelle mani. Ti metto le bende e ho finito, piantala.»
Furono cinque minuti di inferno. Mi strinsi la lingua fra i denti finché non sentii il sangue contro la guancia.
«Finito. Finito.» allacciò le bende e mi strinse le mani con le sue.«Fatto.»
Sbuffai una risata «È stato orribile.»
«Lo so, mi dispiace. Sembri stare meglio, però. Prometto che non ti ucciderà.» lungo silenzio. Sentii un peso sulle spalle, come se il cadavere mi fosse piombato di nuovo addosso. Lei sgranò gli occhi.«Oddio, mi dispiace. Mi dispiace tanto.»
La tirai appena verso di me e poggiai la testa sulla sua spalla, sospirando. Chiusi gli occhi.
Stavolta, niente vuoti di memoria. Ricordo che piansi a lungo, ma in silenzio, senza muovermi, mentre Grace mi accarezzava la nuca.

Cronache Gialle: Casa di Bambola Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora