Passato e Presente

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Berlino Ovest, 15 giugno 1950

Ero nel grosso salone di casa mia, mi aggiustai il cinturino dell'orologio sul polso, azionai il giradischi e mi versai del liquore in un bicchiere, mi affacciai alla finestra di casa, ammirando quella che sembrava una pacifica giornata di giugno, era estate gli alberi erano pieni di foglie e di fiori, e dalla finestra entrava un amorevole profumo di lilla, iniziai a pensare, alla mia città, Berlino, di nuovo in tumulto, di nuovo in conflitto, di nuovo colpita al cuore. In sottofondo, solo la musica, tanto osteggiata, tanto odiata, appena dieci anni prima.

Da qualche parte si iniziava a parlare di una separazione, tra due spazi, uno sotto controllo dei russi e l'altra parte della città controllata dagli americani. Ed ecco che la mia mente, iniziò a vagare tra i ricordi, di una gioventù buttata al vento, incenerita. Una giovinezza fatta di macerie, di guerra, ma anche di amore e di speranza, ma... Forse... Dovrei iniziare a raccontare più nel dettaglio.

L'inizio del mio racconto, è datato 30 gennaio 1933, quando Adolf Hitler, venne nominato Cancelliere del Reich e di lì a poco, ogni forma di libertà venne cancellata.
Fino a qualche giorno prima, ero una studentessa dell'Università di Berlino, studiavo Economia ed ero prossima alla laurea, non volevo che la mia vita fosse monotona come quella di mia madre, volevo che fosse diversa, felice, movimentata (certo, non fino a quel punto). Ma delle elezioni libere cambiarono completamente ogni mia abitudine, rivoluzionando completamente tutto quello che avevo vissuto fino a quel momento.

Ero diventata Eleonore Schultz, una donna fertile, buona solo ad un paio di cose: fare figli e prendermi cura della famiglia e della casa. L'ordine era quello e, mio padre, decise di obbedire, fino alla fine.
Mi impedì di proseguire gli studi, confinandomi a casa, aiutando mia madre nelle pulizie: la mia vita era diventato questo, un circolo vizioso fatto di polvere.

Mio fratello invece, si arruolò nell'esercito, diventando in breve il suo pupillo, la persona a cui affidarsi e di cui essere fieri... Lui avrebbe portato onore alla Germania e alla famiglia, che importa che avrebbe potuto perdere la vita? Sarebbe morto da eroe, no?

Era appena iniziata e già non vedevo l'ora che arrivasse la fine, mi sentivo già stanca, già oppressa, ma non avevo la minima idea di quello che mi attendeva. Alla fin dei conti, non si può mai immaginare il peggio, no?

La parabola dell'odio aveva iniziato ad inquinare ogni casa, ogni famiglia, e la mia, non era da meno.

In casa era stata vietata la musica, il divertimento, qualsiasi cosa potesse dare una parvenza di libertà, normalità.
C'era una strana atmosfera nell'aria, si iniziava a respirare fumo, fame, violenza e solo pochi di noi si aspettava quello che effettivamente stava per succedere.
Nel frattempo, nel presente, continuavo a scrutare fisso il cielo, cercando di intravedere l'unica persona che mi avesse aiutata a riscoprire la speranza, l'unica persona che avessi mai amato (e che continuassi ad amare): Jocabel.
Era una giovane ragazza, adorava vestirsi al maschile e in quei vestiti ci stava maledettamente bene, portava i lunghi capelli neri, sempre legati in uno chignon, e in testa indossava un cappello con la visiera, sempre a coprirle gli occhi.

Ed erano poche le volte in cui riuscissi ad intravederne il colore: a volte erano verdi, in altri momenti erano grigi e li amavo, allo stesso modo in cui io amassi lei.

In casa mia non c'era musica, ma con lei... riuscivo a sentirla anche quando il grammofono era spento, con lei riuscivo a distinguere le note che componevano la musica della libertà, in un periodo che ci voleva oppresse, senza amore.

Al termine della guerra, mi riscrissi all'università, completando gli studi finendo di laurearmi in Economia, come avrei voluto e mi sposai con un ragazzo, August, leggermente più grande di me, ma andavamo d'accordo, anche se non gli avevo mai raccontato della mia vita prima.

Abbiamo avuto due splendidi figli: un maschietto, Alain, ed una femminuccia, alla quale decisi di darle il nome di Jo, speranzosa che avrebbe avuto il suo stesso coraggio. Nonostante questo, mi sentivo come se nella mia vita mancasse qualcosa.

A volte, quando baciavo mio marito mi capitava di sentire il sapore delle labbra di Jo, il profumo dei suoi capelli, come se infondo fosse ancora lì con me e che, in un modo o nell'altro... fosse felice, per me. Io avevo provato a voltare pagina, ma non volevo dimenticare il suo nome, era stata la protagonista del capitolo più importante.

All'improvviso la porta di casa si chiuse violentemente, e per un attimo il mio cuore iniziò a battere forte in preda al panico, come in quelle fredde giornate al campo... quando le kapò, bacchettavano sulle porte della baracca intimandoci di uscire in fretta e tu eri lì, a pregare che non fosse arrivato il tuo momento, o forse sì...almeno quell'inutile umiliazione sarebbe finita, e così, la tua sofferenza.
Mi voltai, mio marito era in piedi all'uscio, stringendo forte le mani ai bambini, tutti e tre corsero tra le mie braccia «gli sei mancata tanto, vedo!» disse divertito, mio marito «e a me sono mancati loro» risposi, dando un bacio sulle guanciotte di entrambi, infine salutai August.

Batté le mani ed intimò ai bambini di filare nelle rispettive stanze, infine lui si sedette sulla poltrona e accavallò le gambe «allora, ti andrebbe di raccontarmi i tuoi pensieri?» mi chiese, preoccupandosi per me «non saprei neanche da dove iniziare...» risposi, non volevo parlargli di Jocabel, non volevo che portasse via i miei figli «tu inizia da dove vuoi» mi rassicurò, accarezzandomi il braccio.

Mi guardò negli occhi, implorandomi di confidarmi, e fu in quell'istante che cedetti, iniziando a raccontargli della mia vita, precedente a lui. Dei pensieri che tormentavano la mia mente e degli incubi che non mi facevano dormire la notte, d'altronde era mio marito.
Aveva pur sempre il diritto di sapere, no?

In un primo momento le parole mi si bloccarono in gola, raccontare, significava rivivere una vita intera, un incubo che avevo provato per così tanto tempo a dimenticare, ma... non puoi, un luogo del genere ti perseguita, è esso a ricordarsi di te.

Ti chiama per nome, per numero di matricola, senti i cani ringhiare e le guardie urlare, ordini su ordini, le frusta, i colpi di pistola. Pianti, grida, morte. Un unico odore: quello del fumo; un unico colore: quello del sangue.

Iniziai a grattarmi l'avambraccio, dove avevo tatuato il numero "160418", curioso, no? La mia data di nascita era diventato il mio numero di matricola, in quel posto dimentichi di essere umano, dimentichi di essere una persona... diventi un oggetto, fabbricato in serie.

Non hai più un nome, non hai più i capelli, non ti resta nulla, proprio nulla.
Decisi di alzare la manica della camicia e gli mostrai il numero «ecco, da questo numero, inizia la mia storia» dissi, per poi scoppiare a piangere.

(Canzone in sottofondo: Easy to love - Ella Fitzgerald)

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