Jo
Inverno 1944, Polonia.
Una notte, decisi di fuggire da quell’inferno. Non riuscivo a sopportare ulteriormente il tanfo di morte che si respirava, la paura di non riuscire a sopportare l’ennesimo giorno di fatica, di lavoro.
Ero cosciente del pericolo che avrebbero corso le mie compagne di prigionia, ma non avevo altra scelta se volevo vivere.
Misi in pratica le mie doti da stratega e pianificai ogni dettaglio, cercando di celare la mia ansia e il terrore di venire scoperta.
Si fece notte, mentre la luna brillava alta nel cielo, sgattaiolai dalla mia baracca. I miei passi erano leggeri, quasi felpati, un’ombra che si muoveva nel buio. Dovevo evitare le guardie, dallo sguardo acuto e i cani. Attraversai il campo, utilizzando ogni angolo buio e nascosto dalla vista dei nazisti.
Con passo furtivo, attraversai il perimetro del campo, ogni passo mi avvicinava alla libertà, ma il rischio era altissimo. Ogni rumore, ogni fruscio di foglie avrebbe potuto tradirmi e farmi cadere nuovamente nelle grinfie dei miei carcerieri, che avevano più l’aspetto di demoni e boia.
La notte era gelida, ma il calore del desiderio di libertà mi teneva in piedi. Continuai la fuga nel buio della notte, cercando di evitare qualsiasi ostacolo. Ogni istante era un’eternità, ma non avrei mai smesso di lottare.
Finalmente, all’alba, ero libera. Ero riuscita ad oltrepassare il perimetro del campo, indenne, lontana dalle barriere in cui noi prigionieri eravamo tenuti, come degli animali.
Il mio viaggio continuò, sognavo di riunirmi ad Eleonore e di costruire la nostra nuova vita insieme. La mia fuga era solo l’inizio della lotta per la sopravvivenza.
La paura e l’angoscia mi laceravano il cuore mentre mi allontanavo sempre di più. Mi sentivo in colpa per avere abbandonato i miei compagni di prigionia, ma ero consapevole che quella fosse l’unica possibilità di sopravvivere.
I loro volti, le loro voci, le loro urla si accumularono nella mia testa. Le loro vite si erano intrecciate con la mia, e mi chiedevo se avrei mai saputo cosa avrebbe potuto accadergli, se avrebbero continuato a lottare o se si sarebbero arresi, perdendo la speranza come tanti altri che avevo perso.
Ma quell’attimo di esitazione si rivelò un duro colpo, ma mi resi conto di non poter fare nulla per loro, per cambiare la situazione nel campo. Se avessi potuto, lo avrei già fatto. Dovevo cercare di costruire una nuova vita, ma l’ombra dei miei compagni di prigionia sarebbe rimasta per sempre con me, indelebile.
Con il cuore pieno di contraddizioni, continuai per la mia strada, il mio cammino verso la libertà.
Le notti nei boschi erano fitte di oscurità, ma a tormentarmi erano le voci che risuonavano nella mia mente, senza interruzioni. Sentivo le voci dei miei compagni, mi chiamavano “egoista” per averli abbandonati ai loro destini. Le loro voci mi perseguitavano, sembravano echeggiare tra gli alberi, rimbombando nel mio cuore.
La notte era il momento peggiore, il silenzio del bosco sembrava amplificare il rimosso e la tristezza. Le loro voci si facevano sempre più forti, quasi insopportabili. Ero sola, vulnerabile, ma a tenermi dritta era la speranza di rivedere Eleonore e di avere una seconda possibilità. Cercavo conforto nei ricordi, nei momenti felici passati insieme, immaginavo il suo sorriso, la sua voce amorevole, il calore dei suoi abbracci. Erano quelli i ricordi che mi facevano andare avanti, immaginavo con lei un nuovo futuro, diverso. Con un gran bell’epilogo, come nelle favole.
Trovai rifugio in un vecchio fienile, sembrava abbandonato e incolto, almeno ero al coperto e potevo utilizzare il fieno rimasto per avere un “letto”, ormai la mia schiena era fin troppo abituata. Il fienile era silenzioso, ma il mio cuore batteva tanto forte da interrompere quel silenzio, per la paura di essere catturata di nuovo. Con il passare delle ore la fame, la stanchezza, si facevano sentire, sempre di più ma non osavo chiedere aiuto per paura di essere tradita e riconsegnata ai miei carnefici.
Nel cuore della notte, vidi una luce fioca di una lanterna avvicinarsi sempre di più, impanicai convinta ormai di essere braccata e, invece, era il vecchio proprietario, probabilmente di ritorno da un’intensa giornata di lavoro. Fece luce, illuminando la mia magra e spaventosa figura, l’uomo inizialmente crebbe di vedere un fantasma, pallida e scheletrica com’ero… mi si avvicinò cautamente e non appena mi vide, sgranò gli occhi… ero sporca, senza capelli, non ero una persona ero un nulla, un numero.
Ma l’uomo dimostrò di avere un animo gentile. Senza esitazione, mi fece segno di seguirlo all’interno ‹‹parli tedesco?›› gli chiedo, cercando di dire qualcosa, l’uomo annuì ‹‹entra… non ti faccio niente!›› dice, facendomi luce con la lanterna.
L’uomo capì quanto fossi debilitata e mi aiutò a proseguire, lentamente, era lui il vecchio eppure, mi stava donando una mano preziosa.
Dimostrandomi che nel mondo un briciolo di umanità fosse rimasta, notò la divisa a righe e il triangolo giallo, ma non disse nulla, non fece domande. Casa sua era accogliente, accese anche un po’ il camino che riscaldò quasi immediatamente l’ambiente, nonostante fossi tentata, non guardai mai le fiamme, non riuscivo a farlo.
L’uomo si accorse della mia magrezza, e mi offrì con gentilezza del pane e del formaggio, ‹‹mangia, ti aiuterà a recuperare le forze!›› gli sorrisi debolmente, e iniziai a mangiare, quasi con ingordigia. Era da tempo che non assaporavo qualcosa di così buono, era solo del pane e del formaggio, ma… era molto più di quello che fossi riuscita a mangiare fino a quel momento. Dopo mangiato, l’uomo mi offrì anche un secchio d’acqua calda ‹‹questa è per lavarti›› dice, indicandomi poi il bagno.
Mi aiutò nuovamente ad alzarmi, aiutandomi a stare all’in piedi. Una volta chiusa la porta, mi scontrai con il mio riflesso nello specchio: ero spaventosa, non così diversa da tutti quei cadaveri che avevo visto a cumoli. mi chiedevo come fossi riuscita a sopravvivere in quelle condizioni; ma guardandomi allo specchio mi convenne una sola: chi ero io per mettere in dubbio la volontà di Dio? Avevo smesso di credere, fin quando non mi sono ritrovata in quell’inferno, e non era mai la mia ora.
Avevo visto amiche, fratelli, compagni finire fumo nel vento, quel fumo grigio e intenso che si vedeva uscire dalle ciminiere ininterrottamente; non avevi il tempo di piangere, perché ogni giorno se ne andava via un pezzo.
Mi spogliai, lentamente, inumidì la spugna e iniziai a lavare. Era bello sentire la sensazione dell’acqua sulla pelle, era una sensazione che avevo quasi dimenticato. Era un rituale di purificazione, mi liberavo dello sporco, ma anche delle sofferenze patite durante i lunghi anni di prigionia, un ritorno alla mia umanità che sembrava perduta.
Man mano che riuscivo a strofinare la spugna, sentivo la rugosità della mia pelle sotto di essa. Era come se ogni strofinio fosse un gesto di liberazione, un modo per provare a spazzare via ogni brutto ricordo che si erano incollati a me come delle ombre persistenti. Le lacrime che avevo trattenuto per tanto tempo iniziarono a sgorgare liberamente, mescolandosi con l’acqua; un rilascio di emozioni represse che fu difficile da trattenere.
La sensazione di pulito e sollievo che provai fu avvolgente, come un abbraccio gentile da parte della vita. Certo, ero ancora segnata dagli orrori che avevo vissuto, ma c’era una nuova speranza che aveva avuto il coraggio e la pazienza di insediarsi in me.
Mentre mi avvolgevo in un asciugamano morbido e il mio corpo veniva pervaso dal torpore del camino acceso, pensai che quel gesto gentile, mi aveva restituito la speranza, la fiducia nel mondo e la certezza che la vita mi stesse dando una nuova occasione, per migliorare e smettere di avere rimpianti.
La sensazione di benessere mentre mi lavavo si era tramutata in gratitudine, nei confronti di quell’uomo, nei confronti quella mano tesa e per quella lanterna che aveva irrorato di luce l’oscurità che mi circondava. Sentii che, nonostante il corpo fosse stato maltrattato per così tanto tempo, la mia anima poteva risorgere e ritrovare speranza nella possibilità di rinascere.
Mi diedi un’ultima sciacquata al viso, ancora stentavo a riconoscermi, poi, ad un certo punto… mi sembrò di sentire una voce familiare alle mie spalle. ‹‹Eleonore!›› dico, la ragazza apparve dietro di me, ero consapevole fosse la mia immaginazione ma… ero tanto debole che finì per reputarla reale.
‹‹sei sempre bellissima, lo sai?›› domanda, abbracciandomi ‹‹no… guardami… sono… non lo so neanche io cosa sono, non ricordo nulla, neanche il mio nome›› rispondo, con la voce rotta, balbettavo e non riuscivo a comporre una frase corretta. Eleonore mi strinse ancora di più ‹‹sei Jo, e… credimi, sei ancora bellissima… non temere, i capelli ricresceranno, ti rimetterai in forze e ritornerai a splendere… fallo per me, ti prego! Guardati con i miei occhi›› disse. Poi mi diede un bacio sulle labbra, facendomi comprendere che riuscisse a vedere oltre le mie apparenze, scoppiai nuovamente a piangere e finì per sedermi sul pavimento, priva di forze.
Eleonore fece per uscire, ma io le afferrai il polso ‹‹ti prego, non andare…›› la implorai, lei si abbassò al mio livello, mi diede un bacio in fronte ‹‹non temere, io sarò sempre qui con te!›› risponde, indicando il cuore… poi si alzò ed io non potetti evitare che uscisse.
A quel punto, tornai alla realtà, io ero nuda, seduta sul pavimento di quel bagno, disperata e in lacrime e non riuscivo a fare altro che autocommiserarmi.
Feci un respiro profondo, mi aggrappai al lavandino e, dopo essermi data una spinta ero di nuovo sui miei piedi. Abbassai la maniglia della porta, l’uomo mi aspettava con le braccia incrociate, lo guardai confusa poi, notai il suo sorriso compassionevole ‹‹vieni, penso tu voglia qualcosa di pulito, no?›› mi condusse nella sua camera, sollevò il coperchio della cassapanca e prese una camicia ed un pantalone puliti, dandomi anche un paio di bretelle ‹‹grazie, io… non so come ringraziarla…›› balbetto di nuovo ‹‹stai tranquilla! Non devi fare niente, ragazza…›› mi rincuorò il fatto che non volesse nulla in cambio, vedeva una persona in difficoltà e non è rimasto a guardare, anzi, mi ha dato da mangiare e mi ha dato da bere, forse era un angelo… forse un semplice uomo che ancora ricordava di essere tale e non una belva.
‹‹ora vado di là, così puoi avere modo di cambiarti in totale riservatezza… d’accordo?›› disse, uscendo dalla porta.
Continuai a ringraziarlo anche con la porta chiusa, poi mi vestì ed uscì, unendomi a lui in cucina, per riscaldarmi vicino al camino ‹‹come ti chiami?›› mi chiede ‹‹numero A61180›› rispondo, ripetendo a macchinetta il modo in cui mi chiamavano le guardie al campo, il vecchio era confuso ‹‹guardi… c’è scritto qui!›› dico, alzandomi la manica e indicandogli il marchio sull’avambraccio, l’uomo lo guardò, poi alzò lo sguardo ‹‹dove sei stata, ragazza? Che ti hanno fatto?›› mi chiede, e senza dire nulla mi abbracciò, involontariamente poggiai la testa sul suo petto e scoppiai a piangere.
Era passato tanto tempo dall’ultima volta che avevo pianto, dimenticando anche che sapore avessero le lacrime. Dopo così tanto tempo costretta ad ingoiare il dolore senza poterlo esternare, eccomi tra le braccia di uno sconosciuto che, in qualche modo, stava cercando di farmi da padre.
Mi mise l’indice sotto al mento e fece in modo di farmi fissare il mio sguardo nei suoi occhi, erano marroni ma buoni ‹‹qual è il tuo nome? Penso che tu ce l’abbia… te lo ricordi?›› ed ecco che la mia mente iniziò ad ingranare ‹‹Jo›› dico poi, quasi in un sussurro, come se fossi incerta, come se non ne fossi sicura ‹‹Jo!›› esclamo, poi, con convinzione. L’uomo sorrise ‹‹è un piacere, io sono Michael!›› e mi abbracciò di nuovo, come se anche lui ne avesse bisogno.
Poi si alzò e prese una brocca d’acqua che portò a tavola ‹‹ho una figlia, dovrebbe avere la tua età… si chiama Juliet, ogni tanto mi viene a trovare›› dice, iniziando a raccontarmi la sua vita, la figlia lavorava in una cittadina poco distante come infermiera in un ospedale.
‹‹tu chi sei, Jo? Perché sei in queste condizioni?›› mi chiede, era intenzionato a comprendere la mia vita ‹‹se te lo raccontassi, potresti non credermi›› rispondo, facendo un piccolo sorso d’acqua.
‹‹stai tranquilla, Jo! Non importa quanto possa sembrare assurdo, io sono qui per ascoltare la tua storia›› ero incredula che qualcuno fosse interessato ad indagare, che fosse interessato a scavare a fondo, andando oltre e dando un nome alla mia condizione fisica. Non avevo idea su come cominciare il racconto, ma in qualche modo, iniziai a farlo. Quell’uomo fu la prima persona con cui abbia parlato di quei giorni.
‹‹il mio nome è Jo, ho ventisei anni, e ho passato gli ultimi tre anni in un campo di prigionia, poco distante da qui… ho visto cose indicibili, ho visto intere famiglie diventare cenere in pochi istanti. Uomini, donne, anziani e bambini, nessuno aveva pietà.›› l’uomo mi ascoltava, in silenzio, senza farmi domande. Pezzo dopo pezzo, iniziai a mettere insieme tutto quello che avessi da dire, partendo dal principio, arrivai nel descrivere nel dettaglio le sevizie e le torture subite.
Michael ascoltava senza parlare, prestava particolare attenzione e mi colpì il suo viso, impassibile durante, ma che alla fine si è intristito. Iniziò a scuotere la testa e si alzò, facendo avanti e indietro ‹‹dopo l’ultima persona amica che ho visto morire, ho smesso di piangere… mi stavo abituando al senso di perdita e… ormai mi ero rassegnata, convinta che anche per me l’unica via d’uscita sarebbe stato il crematorio…›› lui mi asciugò una lacrima sul viso e sorrise, mi diede una carezza e poi si alzò ‹‹Grazie per aver condiviso con me tutto questo…» dice dolcemente «io la ringrazio per avermi offerto un aiuto quando ne avevo bisogno» rispondo. Mi alzai a fatica e allargai le braccia, l’uomo mi strinse e mi diede una delicata carezza sulla schiena «non c’è bisogno che mi ringrazi…» risponde.
«é… il momento di andare a dormire, domani mi attende una lunga giornata e… dovrebbe venire mia figlia!» dice, poi si assicurò di dirmi di fare lo stesso.
Andai nella camera nella quale mi aveva permesso di dormire e mi sdraiai sul letto. Giacevo su di esso, ma il sonno tardava ad arrivare, era come se la mia mente mi stesse impedendo di farlo, forse spaventato dall’idea che potesse rivelarsi un sogno e che in realtà fossi morta e che quello fosse il Paradiso. Essere uscita da quell’inferno era così surreale… riflettevo sulla generosità di Michael, del modo in cui mi avesse ascoltata… avevo condiviso con un estraneo dubbi, paure, sogni e speranze e in un batter d’occhio si era trasformato in un amico.
Il letto era comodo e forse, anche per questo, la stanchezza iniziò ad avanzare gradualmente e sentì il torpore dell’addormentamento. Erano stati giorni intensi, ma, grazie a Michael avevo trovato un rifugio sicuro. Chiudendo gli occhi, accolsi il sonno con gratitudine, sperando che il nuovo giorno portasse con sé nuove speranze e opportunità.
Primo capitolo inedito. Ho raccontato come Eleonore fosse riuscita a sopravvivere, ma mai la storia di Jo.
Ovviamente non sarà l'ultimo, avrà un continuo, sul quale sto ragionando.
Spero vi piaccia.
~WillowJoe.
STAI LEGGENDO
La Musica Della Libertà
Ficción históricaBerlino, 1950. Dal grosso salone di casa propria, una giovane donna osserva il presente, sorseggiando un calice di liquore, abbastanza pesante per mandare giù i vecchi ricordi. La musica riecheggia tra le stanze come metafora di un tempo che è fin...