Nel rimontare un elettrodomestico dopo aver provato a ripararlo, mio padre ne lasciava sempre fuori qualche pezzo: una vite, un bullone, una rondella, un pezzo dalla funzione sconosciuta. Nei ventotto anni in cui ho vissuto a casa con i miei genitori ho visto smontare di tutto: lavatrici, televisori, telecomandi, walkman, videoregistratori, radio. Eppure, il mestiere di mio padre non era riparare le cose, che difatti, spesso, restavano rotte.
Le rare volte in cui finiva bene, a riassemblaggio ultimato, sentivo di non poter condividere a pieno la sua grande soddisfazione e ancora meno il sollievo di mia madre nell'apprendere di non dover ricomprare l'elettrodomestico in questione o chiamare un tecnico specializzato: suo marito, in qualche modo ignoto a tutti, lui compreso, l'aveva sistemato. A me, il pezzo rimasto fuori lasciava addosso un vago senso di incompiuto, di indeterminatezza. Fino ad allora quella piccola parte esclusa aveva avuto uno scopo, una finalità, o non sarebbe stata messa lì. Com'era possibile che rimuovendola, anzi semplicemente dimenticandosi di rimetterla al suo posto, l'oggetto rotto funzionasse ancora?
Solo crescendo ho capito che anche le persone talvolta riescono a funzionare lo stesso, forse anche meglio, nonostante venga loro tolto qualcosa o qualcuno. E che a volte noi siamo la lavatrice, mentre altre siamo la vite, il bullone o la rondella negli ingranaggi di qualcun altro.
Ho sempre trovato confortante la possibilità di attribuire ai genitori le colpe per i comportamenti fallimentari dei figli. Non serve consultare uno psicologo, basta Google, per sapere che in letteratura specializzata esistono numerosi studi a sostegno del mio scarica barile: evitare di prendermi la responsabilità, scaricandola sugli altri, della mia tendenza a lasciare incompiuto ciò che inizio. Ma è proprio da loro che ho imparato il peggio di me. Da mio padre, con il suo lasciare fuori un pezzo, e da mia madre, che inizia spesso le frasi aspettandosi che il resto del discorso... insomma, si è capito.
Questa cattiva abitudine, ereditaria o meno, l'ho sempre avuta, anche nello studio: per quanto tempo io avessi a disposizione per prepararmi come si deve a un compito in classe prima o a un esame universitario dopo, c'era sempre un capitolo o una parte del programma che sfuggiva dalla mia tabella di marcia, che tralasciavo, o studiavo comunque peggio del resto. Di come abbia sempre fatto ogni mio docente a sapere con esattezza quale fosse l'argomento in questione, anche quando la falla nella mia preparazione cadeva all'inizio o a metà del programma, e a concentrare su quello le sue domande, non ho tuttora una spiegazione. Credo che l'esempio degli esami sia emblematico, poiché descrive esattamente ciò che faccio da una vita: quando mi impegno in qualcosa arriva sempre il momento in cui prendo un metaforico piccolo bullone e lo metto via, come se la perfezione mi fosse preclusa, se non volessi o non potessi fare tutto per bene, tutto giusto. È probabile che all'epoca dell'università il mio presentarmi a un esame con dei buchi di qualche pagina fosse un modo contorto per percepire la mia fallibilità, non sovrastimare la mia preparazione e tenere alta la concentrazione.
E chissà se era questo ciò che mio padre voleva insegnarmi quando, nel rimettere via la cassetta degli attrezzi a riparazione ultimata, mi mostrava quasi con fierezza cosa avesse trascurato di rimontare, accompagnando il suo dono con la frase di rito: «Questo tienilo tu, non si sa mai, può sempre servire». A cosa non lo so. A volte l'ho immaginato nei panni di un chirurgo nella fase finale di un'operazione. Ecco che al momento di richiudere si ricorda che ha "dimenticato di dimenticare" e si mette quindi ad armeggiare un po' alla frettolosa ricerca di un componente che non gli sembra fondamentale per la funzione del suo paziente, come una piccola inutile appendice. Con il disagio di chi si sente un involontario complice di una truffa, ho sempre accettato il suo scarto, per metterlo con gli altri che ancora conservo.
Ed eccola, la mia scatola delle appendici, al centro della stanza insieme a una cassetta degli attrezzi nuova di zecca ricevuta in regalo proprio per questa occasione: stuccare, carteggiare, sostituire gli interruttori, dare il bianco. La prima casa in cui vivere per conto mio, dopo quattro settimane di lavori, ritocchi e trasloco diviso in parti più piccole, quasi pronta al mio ingresso ufficiale, quasi a posto, quasi abitabile. Già, quasi.
Ed ecco anche la mia occasione di abbandonare le cattive abitudini e imparare a portare a termine qualcosa. Eccola che sfuma, mentre mi guardo intorno alla ricerca di una piccola faccenda da posticipare, così, per il gusto di essere del tutto pronto prima di iniziare a vivere qui. In fondo perché dovrei fare tutto come si deve per la prima volta in vita mia proprio ora?
Forse perché, lasciare quell'unica cosa nella lista delle cose da fare non sarebbe stato come lasciare sul tavolo operatorio di famiglia un ingranaggio inutile, un'appendice. Andare a letto senza pensieri quella sera e rimandare a un "poi" indefinito ciò che era rimasto incompiuto sarebbe stato come richiudere un paziente dopo aver accidentalmente asportato entrambi i reni, o il cuore o il cervello.
Grazie per il tuo insegnamento, papà. Ed ecco la fine del mio mondo così come lo conoscevo. Forse la fine del mondo in tutti i sensi.
STAI LEGGENDO
Il nascondiglio del topo
AdventureVincitrice Wattys 2021 - categoria Jolly La penultima cosa che S. vorrebbe è un topolino nella casa per cui ha appena acceso un mutuo trentennale. L'ultima è vedere la sua vita sgretolarsi sotto il naso, per aver seguito quel topo nel suo nascondigl...