Capitolo 26. Borse

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Non so per quanto tempo ce ne stiamo tutti e tre zitti e fermi, a guardare ognuno un punto diverso oltre il parabrezza, chi una zolla di terra arida, chi una bottiglietta in non-decoposizione, chi i fili d'erba ostinati che spuntano da una sottospecie di marciapiede all'ingresso di una fabbrica. Un paio di volte Caterina ha preso fiato, sul punto di iniziare a dire qualcosa, condividere con noi il suo pensiero; ma alla fine non ha detto nulla.

«Ci sono i vestiti della palestra nel bagagliaio? Magari posso cambiarmi.» Strazio rompe il silenzio prima che questo possa diventare ancora più angosciante, ma io non so di cosa stia parlando: «Palestra?».

«Ah, è una di quelle parti che hai rimosso» commenta lui, vago; non serve che spieghi altro, sono già abbastanza turbato così, senza dover fare anche i conti con una mia possibile frequentazione di una palestra.

«Quando avrei iniziato?»

«Quasi mai» ridacchia colpevole. Il suo sguardo si aggrappa al freno a mano, come se volesse tirarlo su questa conversazione. «Mi sa che è causa mia.»

Capisco senza bisogno di altre spiegazioni che devo aver tentato, non molto tempo fa, dato la borsa ancora in auto, l'inspiegabile voglia di frequentare una palestra, ma che devo aver mollato dopo le prime due o tre volte, massimo. Quello provato, fino al punto di iscrivermi, è un desiderio che mi suona del tutto estraneo, fatico persino a visualizzarmi in un contesto del genere. Non ho nulla contro le palestre e chi le frequenta, ma ciò che si fa lì non è il tipo di attività fisica che riesco a immaginare di praticare. Anche se ho smesso di nuotare, corro regolarmente e mi vedo più facilmente a fare delle gran pedalate in collina e per boschi; ma mai ho considerato di iscrivermi in palestra. O almeno ho sempre pensato fosse così. Dev'essere un ricordo che Strazio ha diviso con Sicuro, il responsabile più probabile del mio tesseramento e della provvidenziale borsa nel bagagliaio. Con un estenuante sforzo mnemonico riporto alla mente la compilazione della scheda, il giro turistico per la sala pesi, la spesa da Decathlon, ma nulla di più.

«Poi cos'è successo? Perché ho smesso?»

«Mi vergognavo» ammette senza alzare lo sguardo dal freno a mano.

«Di cosa, degli altri?»

Non riesce a formulare una risposta esauriente, fa spallucce e sembra sul punto di scoppiare di nuovo a piangere.

Tiro la levetta del bagagliaio e mi rivolgo a Caterina: «Ti dispiace scendere e vedere se dietro c'è una borsa da palestra?»

Lei annuisce, si volta per lanciare a Strazio un'occhiata rassicurante, poi scende dalla macchina e fa quello che le ho chiesto: mai in tutta la sua vita Caterina ha fatto qualcosa solo perché gliel'ho chiesto io, questa è in assoluto la prima volta. Dal finestrino mi porge la borsa, che effettivamente era lì, poi mi fa un cenno per farmi capire che si allontanerà un po' dalla macchina, giusto per lasciarci soli in macchina-barra-spogliatoio degli uomini. Mi piace questa Caterina più timida e discreta. Non riconosco la borsa, ma appena me la metto sulle gambe e apro la zip mi inebrio di un profumo familiare, di casa. È solo il profumo del mio detersivo, ma è la cosa più confortante che i miei sensi percepiscono da giorni, nonostante le docce e i cambi di vestiti. Perché lo sto sentendo fuori, lontano da casa e tutto ciò che contiene: mi concede l'illusione che altrove le cose siano normali, facili come attaccare una lavatrice.

«È tutta roba pulita» constato mentre la passo a Strazio, dietro di me. Anche senza un effettivo bisogno, prima di dirlo l'ho annusata a fondo, solo per godere ancora una volta del profumo della normalità. Lui afferra i vestiti e a fatica si sfila quel poco che ha indossato finora: un camice d'ospedale, boxer, calzini. Gli passo anche le scarpe, semi nuove, usate davvero non più di due volte. «Di cosa ti vergognavi?» Approfitto dell'assenza di Caterina. «Io non me lo ricordo.»

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