Capitolo 13. Sveglio

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«Io lo ammazzo, giuro che lo ammazzo!»

«Non avresti dovuto fidarti di lui.»

«Che diavolo stai dicendo? Non mi sono mai fidato di lui!»

«Sì invece, hai abbassato la guardia, e come è finita?»

«Non mi fare incazzare anche tu... ah, che male...! Cosa ne sai poi? Non sei come noi.»

Quindi non sono ancora morto; oppure questo è un inferno fatto davvero molto bene. Ho provato a chiedere aiuto, subito dopo aver ripreso i sensi, ma mi è sembrato di essere al mare, in acqua, e ridere forte fino a bere acqua salata per sbaglio, credere di affogare. Ma non al mare. Senza acqua. E senza avere niente da ridere. Appena sono riuscito ad aprire gli occhi ho percepito solo il nulla: buio completo, denso, pesante, rovesciato addosso a me e all'ambiente intorno come un'impietosa, spessa e pesante coperta nera. Ho capito quasi subito dove siamo. Poi quelle due voci, tra cui ancora una volta la mia, tesa, in preda a un'ansia che ora mi commuove per il suo ostinato attaccamento alla vita: Sclero, quello vero. Credo che «Nhh» sia stata la massima mia espressione linguistica possibile, ma è bastata per attirare l'attenzione su di me.

«Ehi, è ancora vivo!»

«Te l'avevo detto, porca puttana! E adesso che facciamo?»

A quanto pare il mio destino è nelle mani del proprietario di una voce sconosciuta e di un me stesso completamente manchevole di calma e concentrazione che di medicina ne sa quanto, ovvero tutto quello che si può imparare guardando Grey's Anatomy. Questo però è il peggior episodio di tutti: siamo bloccati in un ascensore, precipitati da un aereo, minacciati da un uomo armato, in una stanza con una bomba; e come se non bastasse il paziente sono io.

Il proprietario della voce misteriosa si procura un pezzo di stoffa, non capisco se dai miei vestiti o da altre parti, sento solo il rumore dello strappo e poco dopo una morbida e atroce pressione sulla mia ferita. Il dolore mi mette nuovamente a nanna. Se tutto va bene mi sveglierò guarito. O morto.

Nessuno dei due: mi risveglio per qualche secondo mentre, così mi sembra, mi stanno spostando da un'altra parte, meno buia. Mi autoconvinco che sappiano cosa stanno facendo. Voglio crederci. Forse per il dolore che non accenna a diminuire, per la fiducia appena riposta in questi due soccorritori improvvisati o per un po' di emofobia che si riaffaccia appena ricordo le mie condizioni e gli eventi che mi hanno portato fino qui, la mia lucidità dura solo qualche istante, poi la pesante coperta nera che mi sono trascinato dietro mi avvolge di nuovo, non so per quanto. So solo che al mio risveglio non c'è più, al suo posto c'è della luce, debole, filtrata in forme regolari da qualcosa simile a delle assi o a dei pannelli che sembrano proteggere noi dalla fonte luminosa esterna; o viceversa.

«Dove siamo?» riesco a dire. La mia voce è spaventosamente fragile.

«Non ti agitare. Sei messo male. Meno ti muovi e meglio è.»

Non mi agito, ma voi ditemi «dove siamo», per favore.

«Stiamo per uscire dal retro. Conciato così non puoi sopravvivere, noi non possiamo aiutarti.»

«Dal retro di cosa?» Uso tutte le forze rimanenti per l'ultima domanda.

«Di questo posto», risponde la voce misteriosa. Quindi mi state lanciando fuori da qui? Bene.

Svengo altre due o tre volte, più a lungo, perché quando mi sveglio sono in un letto di ospedale, medicato, reidratato, con due occhi uguali ai miei che mi guardano fisso, da sopra un viso tumefatto, sopra un collare ortopedico, sopra un braccio ingessato, sopra una stampella.

Ho un gemello con cui sono nato e cresciuto e con cui ho appena avuto un incidente stradale. Guidavo io, lui ha sbattuto contro il cruscotto mentre io, senza cintura, sono stato ferito da qualcosa al fianco, il finestrino che si è spaccato o qualcosa che ha sfondato la mia portiera. C'era una terza persona, ma non ricordo fosse in macchina con noi. Forse il conducente dell'auto con cui ci siamo scontrati? Perché andavamo così forte? Perché non avevo la cintura? Ma soprattutto dove stavamo andando? Comunque ora siamo al sicuro, i medici si sono presi cura di noi, presto torneremo a casa dai nostri genitori, dai nostri amici: ci berremo una birra, ci rideremo su. Resterà qualche cicatrice a entrambi, faranno colpo sulle ragazze. Sì, dev'essere così, è sicuramente così, non c'è altra spiegazione.

Il nascondiglio del topoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora