Capitolo 33. Scarto

46 12 15
                                    

Mi stava aspettando. Me lo ritrovo davanti, faccia a faccia, nella penombra che ci avvolge. Sapeva anche da che parte sarei entrato. Presentimento o preavviso?

«Dov'è il mio quaderno?» mi accoglie così.

«L'ha preso il ragazzo.»

Sento la sua risata fatta d'aria, come un ghigno soffocato. «Immagino che abbia smesso di essere d'accordo con me sul da farsi. Mi chiedo da quando.»

«Forse da sempre. Forse ti ha solo assecondato in attesa di un piano migliore del tuo.»

«E questo piano migliore ce lo avresti tu?»

«Sai che al momento non posso essere sicuro troppo a lungo di quello che penso e dico. Sai anche che non posso essere certo che sia la verità. Anzi, probabilmente non lo è. Però sono sicuro di una cosa: non mi piace essere il piano di qualcun altro, non mi piace che si decida per me, soprattutto se si tratta di stare chiusi qui dentro chissà per quanto, magari per sempre, fino a morirci. Scusa, ma ho altri progetti per me stesso.»

«Davvero?» Se la prende comoda; sa che, mentre fuori passerà un'ora, qui dentro avremmo parlato per un intero pomeriggio. Non che ne abbia particolare voglia. Eppure, penso sappia di dovermelo, di doverlo a me, Stanco; ma anche a Serio, Sclero e Strazio, i soli a non aver ricevuto istruzioni, a essere stati presi e scaraventati dentro gli eventi, a gestirli a intuito. Mi siedo a terra, sento che il suolo sotto di me è duro, è come stare su una lastra di pietra. Lo invito a fare altrettanto, facendo gli onori di casa al posto suo. Mi ero già accorto che in questa zona filtra un po' di luce dalla porta sul retro, proveremo ad avere una conversazione faccia a faccia. Mi asseconda e si siede di fronte a me.

«Sai, ho posti più comodi di questo. Anche se non di molto.» il suo è un commento svogliato, giusto per riempire il momento di silenzio che precede la ripresa del discorso, partendo dalla domanda retorica che mi ha posto, e che ripete: «Allora, davvero hai altri piani?»

«Cosa ti fa credere che io non ne abbia?» Mi dovrei offendere? Forse in faccia e nelle mie azioni si legge il mio procedere a tentoni in questo e in tutti gli altri contesti che riguardano la mia vita?

Decido di mettere a tacere almeno un paio delle mie voci interiori e aspetto che continui a insultarmi velatamente: «Non mi sembra che le idee che tu e gli altri abbiate avuto finora spicchino per sagacia. Il primo, quello incredibilmente tranquillo, ha pensato bene di provare a liberarsi di te e dell'altro senza chiedersi se le vostre morti avrebbero potuto nuocergli. Il secondo ti ha ferito e probabilmente ci avrebbe riprovato se non avesse parlato con me. Soltanto il quinto ha ascoltato cosa avessi da dirgli. Cinque di te per averne uno che ascolta cosa gli dicono gli altri».

«Beh, non mi pare che quando siamo entrati qui di ritorno dall'ospedale tu ci abbia fornito chissà quali spiegazioni.»

«Ma l'ho fatto prima dell'ospedale, mentre eri privo di sensi. Ho dato io indicazioni a quello nervoso per trovare la mia macchina e per la strada. È una fortuna che fosse così vicino, non trovi?» ride. Sì, lo sento ridere tra sé e sé, al corrente di qualcosa di ironico di cui io però sono all'oscuro.

Odio situazioni del genere: mi sembra di essere di nuovo al liceo. Cosa cazzo avete da ridere, cosa c'è di così divertente? Ce l'avete forse con me? Soffrivo di manie di persecuzione, dicevano. Ero paranoico, dicevano anche questo; ma io sapevo benissimo che era qualcosa in me o intorno a me a farli sghignazzare così tanto e zittirsi al mio arrivo. Passavo in rassegna il mio aspetto fisico, i miei familiari, i miei vestiti, il mio modo di parlare, tutte le cose su cui di solito si facevano battute di spirito. Mi sembrava tutto in regola, tutto talmente anonimo e banale da non avere il benché minimo interesse per gli altri. Solo dopo ho scoperto che erano le corna di Carlotta a divertirli tanto. Non ero uno di loro, altrimenti mi avrebbero avvertito, invece di farmele indossare a testa alta per tutto l'istituto per settimane. Ne ho incontrato uno una volta, serviva in cassa in un negozio di hobbistica e giardinaggio; mi ha sorriso, aspettandosi il classico falso saluto dei vecchi compagni di classe che si devono volere bene per il semplice motivo di aver condiviso la stessa aula per sei ore al giorno per sei giorni a settimana per nove mesi di cinque anni della nostra vita. No, amico, non funziona così, non ti voglio bene nemmeno un po', dammi il mio cazzo di scontrino e smettila di sorridermi come se da un momento all'altro dovessi chiamarti per nome e dirti che sono felice di vederti, chiederti come va, sposato, figli, cani, gatti, chi ti senti ancora della classe? Perché non provi tu, invece, a chiamarmi per nome e salutarmi? Ti senti ancora troppo importante, mister cassiere con incipiente calvizie e polo verde sudata e troppo stretta sull'addome? Chissà se lui ce li aveva altri piani. Arrivederci e grazie. Arrivederci, senza grazie.

Il nascondiglio del topoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora