Capitolo 15. Fuori

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Oltre il finestrino scorre uno scenario a me sconosciuto. Non ricordo queste colline, queste curve; mi sembra di vedere per la prima volta le finestre spente su profili delle case sulla strada che percorriamo. Eppure, credo comunque di essere già passato da qui, e non solo nel viaggio d'andata verso l'ospedale. Il rispetto per i limiti di velocità di Strazio mi concede tutto il tempo di cui ho bisogno per osservare i dettagli degli scenari che attraversiamo. Una luce innaturale e stonata, fuori stagione, colpisce le cose intorno a noi, picchia duro contro la macchina e il parabrezza.

«A questo punto potevamo anche andare a piedi o aspettare direttamente la fine del ricovero!» sento sbuffare da dietro la mia spalla, dal sedile posteriore, ma la lamentela di Sclero non modifica in alcun modo la velocità di guida di Strazio. Gli lancio un'occhiata rapida, dal sedile accanto. È calmo, ma non in modo inquietante come Serio; piuttosto sembra concentrato per paura di sbagliare. Mi ricorda me prima del tuffo in una gara importante, gli occhi fissi sull'acqua come i suoi adesso sulla strada davanti a noi. In effetti è proprio quella persona: la stessa che nel momento di crisi abbassa le serrande della sua mente, chiudendo fuori il resto del mondo, e non sente più nulla. Proprio come faccio sempre io. O dovrei dire "facevo"? Farò ancora così o è un'abitudine che si è preso lui? A dire il vero questa cosa in particolare mi dispiacerebbe perderla. Non è un aspetto fondamentale della mia personalità e sembra anche appartenere un po' allo spettro autistico, però mi conforta avere uno spazio tutto mio in cui rifugiarmi e trovare la concentrazione per dare il massimo, quando serve. «Grazie per avermi lasciato i vestiti.» Interrompo il mio flusso di pensieri e provo a capire fino a che punto sia concentrato sulla guida.

Sorride appena. «Erano tuoi, prima che miei.» È gentile, non ha fatto una piega quando Sclero gli ha intimato di muoversi a guidare senza fare storie o aspettarsi i suoi vestiti indietro: si è ripreso solo i calzini per lasciare a me le scarpe. Ha poi infilato il camice che indossavo io, e senza protestare si è sistemato al volante.

«Hai paura?» Domanda retorica, so che ne ha. Persino io ne ho, nonostante i miei timori alberghino principalmente in lui, adesso.

«Beh, sì...» confessa a metà, perché l'intonazione della frase in arrivo anticipa un grosso ma, che infatti non tarda ad arrivare: «ma più che altro di ciò che sono, non tanto di quello che potrà accadermi... accaderci», si corregge infine. Ciò che è. Annuisco e mi volto dall'altra parte, riprendendo a far saltellare il mio sguardo da una casa a un albero a una staccionata e a tutto ciò che scorre oltre il mio finestrino. Sono tutti frammenti di paesaggio, così come noi S. siamo tutti frammenti di una stessa persona. Ma fino a che punto un essere umano può continuare a scomporsi così? Esiste una parte infinitesimamente più piccola anche della personalità di qualcuno? E si può definire ancora "qualcuno" a quel punto?

«È di me che devi avere paura, se non schiacci quell'acceleratore!» La versione rauca e spazientita della mia voce irrompe dalla parte posteriore dell'auto e fa svanire le mie considerazioni come una nuvola di fumo. E il fumo, quello di tabacco, è forse anche il motivo per cui la sua voce è più roca della mia. Ma a cosa stavo pensando? Parlavo con Strazio, forse?

«E tu hai paura?» mi chiede. Ah, parlavamo di questo, quindi.

«Di cosa?»

«Di noi.»

«Solo di quelli di voi che mi accoltellano.»

«Giusto.» Sorride, ma vedo chiaramente che la sua nuvola di pensieri non è facile da dissolvere come la mia, infatti resta lì, da qualche parte sopra la sua testa, più densa e piena, più cupa.

Mi stupisce che Strazio faccia tutta la strada senza chiedere indicazioni, ma non sono in vena di altre domande per le quali non sono pronto a ricevere ed elaborare le risposte. Parcheggia, scendiamo. Abbiamo un paio di scarpe in tre, ma camminiamo comunque in modo decente. Loro due mi precedono. Attraversiamo il vialetto di una villetta abbandonata da anni. I vetri rotti delle finestre e le travi scricchiolanti della casa raccontano del tempo passato in quelle condizioni, a fare forse da tetto per qualche tossicodipendente o senzatetto nelle notti piovose. Attraversiamo in silenzio il cortile sul retro, davanti a quella che ha tutto l'aspetto di una rimessa per gli attrezzi da giardino. Ci fermiamo davanti a una logora porta di legno, reduce anch'essa da anni di pioggia, sole e insetti, scardinata e appoggiata sul fianco del capanno.

Il nascondiglio del topoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora