Capitolo 4

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Chiudo gli occhi.

Da quando non ci sono più le braccia di Peeta a confortarmi, lo faccio in continuazione e come sempre l’unica cosa che vedo è il buio.

Nero; l’unico colore che esprime a pieno la mia vita in questo momento. Rappresenta il caos. Rappresenta il mondo quando nessuna luce è pronta ad illuminarlo.

In questo modo mi sento al sicuro.

Protetta nella mia solitudine che a volte racchiude rabbia e dolore e paura, ma che tante altre volte trasmette pace, tranquillità.

Delly, dopo interminabili minuti di silenzio, mi ha salutato e ha riattaccato.

Io invece continuo a tenere il telefono attaccato all’orecchio come se qualcuno rispondesse da un momento all’altro.

Ora so cosa devo fare; dove devo andare. Eppure i miei piedi sono ancora inchiodato al pavimento.

Il sole è ormai basso quando deciso di andare a casa di Peeta. La temperatura si è abbassata di molto e l’aria è pungente. Dalla mia bocca escono piccole nuvolette ad ogni respiro.

Pochi metri e sono arrivata a destinazione. Nessuna luce si vede dalle finestre e alcun fumo uscire dal comignolo. Impossibile che con questo freddo non abbia acceso il camino.

Mi avvicino cautamente alla porta e dopo un attimo di esitazione, busso. Uno, due, tre volte. Nessuno apre. Quattro, dieci, venti volte. Ancora niente.

Continuo a battere ritmicamente la mano sul legno, quando all’improvviso mi viene in mente un altro posto in cui Peeta può trovarsi.

Indosso solo una giacchetta leggera ormai zuppa a causa della neve che si posa. Il gelo entra nelle ossa e irrigidisce ogni mio passo.

E se non fosse lì?

Allontano subito questa ipotesi perché lo vedo seduto sulle macerie di quella che una volta era la panetteria dei suoi genitori.

Gli angoli della mia bocca si curvano in un sorriso. Amaro.

-Sapevo che eri qui-.

Si gira di scatto verso la mia direzione. Sgrana gli occhi, probabilmente per accettarsi  della mia presenza. Per assicurasi che non faccia parte di un possibile flashback.

Vedo la sua espressione ammorbidirsi; rilassarsi.

-A mia madre non piaceva- confessa, indicando i pezzi dell’insegna del negozio posti di fronte a lui. –Diceva che non attirava abbastanza i clienti-.

-Ti manca?- domando, consapevole che la risposta potrebbe annientarci entrambi.

Ci pensa un attimo per poi pronunciare un “no” indifferente.

-Non mi ha mai fatto una carezza; almeno non ne ricordo una.- Vedo dipingersi sul suo volto un mezzo sorriso, inquieto. –Non mi ha mai rivolto una sola parola d’incoraggiamento, anche quando venni sorteggiato per gli Hunger Games. Non è neanche venuta a salutarmi. Forse era certa che mi avrebbe mai più rivisto-. La voce che trema e una lacrima silenziosa gli riga la guancia.

-Ma era mia madre-.

Le ultime parole di Peeta hanno il potere di mandarmi all’inferno e di riportarmi indietro.

E il nero inizia di nuovo ad avvolgermi. Vorrei solo chiudere gli occhi e allontanarmi da tutto quel male.

La madre di Peeta che lo picchia.

Da tutto quel dolore.

Prim che si ferma entusiasta davanti alla vetrina del negozio per osservare le torte.

Da tutto ciò che ho provocato.

Se Peeta non mi avesse gettato quel pane, sarei morta. Non ci sarebbe stata una rivolta. Non ci sarebbe stata una guerra. Tutto sarebbe come prima.

I Mellark sarebbero vivi. Tutti gli altri sarebbero vivi. Ma Prim sarebbe morta comunque.

Forse avrebbe vinto gli Hunger Games? Avrebbe ucciso ventitrè ragazzi per tornare al Distretto 12?

No. Prim sarebbe morta comunque.

Ancora immersa nei miei pensieri, sento Peeta alzarsi dalla sua postazione e cingermi le spalle; avverto il suo respiro sul mio collo.

Senza pensarci ricambio l’abbraccio. Non mi importa se vuole uccidermi. Ho tanto desiderato questo momento che non mi sembra vero.

Il nero che prima mi circondava, muta pian piano in un colore più chiaro.

Blu. Cobalto. Indaco. Azzurro. E mi trovo a contemplare gli occhi di Peeta.

Distolgo lo sguardo, incapace di reggere il suo.

La giacca bagnata inizia a gelarsi contro la mia pelle. Così porto le braccia incrociate al petto, nel ridicolo tentativo di scaldarmi.

Sento il suo sguardo su di me.

-Andiamo a casa- dico, non potendo più resistere a quella situazione.

-Insieme?- chiede Peeta, con una nota di dubbio.

Ecco che la mia mente vola via dalla realtà e mi trasporta a due anni fa, nell’arena. Quando ho tirato fuori quelle bacche per salvarci; per salvarlo.

-Insieme- confermo io.

Per tutto il tragitto che porta al Villaggio dei Vincitori, rimango qualche passo più avanti di Peeta. Ho la sensazione che se fossimo fianco a fianco, potrei scoppiare.

Dopo pochi minuti, arriviamo davanti casa mia. Vorrei entravi e chiudere per sempre la porta a chiave, ma non posso. Finalmente ho il coraggio di girarmi verso Peeta e lo trovo intento a fissare un lato della casa. Provo una fitta di preoccupazione.

-Qualcosa non va?- chiedo, attenta a non far trasparire il mio nervosismo.

Scuote la testa.

-Va' a dormire- dico, indicando con gli occhi, la casa vicina. –Ci vediamo domani- aggiungo.

Annuisce e silenziosamente si incammina verso casa sua, quando all’improvviso si ferma.

-Katniss, asciugati prima di andare a letto. Non vorrei che ti beccassi un raffreddore- dice, per poi allontanarsi di nuovo, ma questa volta con quel che mi è parso un sorriso.

Ha proprio un bel sorriso, penso. Poi una strana sensazione si irradia nel petto. Una sensazione capace di dissolvere l’aria gelida che mi circonda.

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