Capitolo 3

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Erano passati alcuni giorni tra la monotonia dello studio e della lista di film da vedere che ormai si accorciava sempre più. Erano stati giorni di concitazione a Palazzo Chigi: chiunque cercava di dare consigli o di imporre la propria idea, appesantendo di parole una situazione che, in realtà, lasciava senza parole chiunque.
A quanto mi era parso di capire dalle voci fuori dalla mia stanza e per i corridoi vicini, Conte risiedeva a pochi metri di distanza da me e le mie orecchie erano sempre tese a captare la sua voce fuori dalla mia stanza. Probabilmente ignaro del fatto che io stessi lì, un giorno l'avevo sentito parlare al telefono con il figlio, costretto anche lui lontano dal padre, come moltissimi bambini in quel momento. La sua voce suonava tanto rassicurante quanto sincera: non cercava di indorare la pillola amara, lasciava, però, capire che lui, per il figlio, ci sarebbe stato sempre e che quel momento sarebbe passato presto.
Quasi mi commossi a sentire quelle parole e capii anche la sincerità che trapelava dalle parole dette in conferenza stampa qualche giorno prima; in fondo lui era un uomo normale, non credo fosse neanche immaginabile la responsabilità che aveva addosso e la sua completa volontà di tenere insieme tutto quello che pochi giorni prima era scoppiato.
Finalmente, però, riuscivo a capire tutti quei meme su Instagram in cui lui era additato come 'sex simbol', effettivamente la sua eleganza avrebbe affascinato chiunque.

"Stasera ti prometto che passiamo un po' di tempo insieme, potremmo cenare insieme, anche se non so a che ora finisco il turno." mi scrisse mio padre.

"Va bene papà, ci sentiamo più tardi."

Già altre volte mio padre aveva disdetto all'ultimo un nostro appuntamento per cenare, perciò non facevo troppo affidamento su quello che diceva, anche se lo capivo. Capivo la situazione e non era un problema lasciargli svolgere il suo lavoro, soprattutto perché in quel momento non doveva succedere assolutamente niente al Presidente: una crisi istituzionale non era esattamente quello da augurarsi in quel momento.

Il pomeriggio passò come gli ultimi dieci tutti uguali: mi barcamenavo tra la bibliografia dei testi inseriti nella mia tesi e le serie tv che avevo iniziato e mai finito. Finché il mio telefono, verso le 20, non squillò: "Pronto, dimmi papà." dissi aspettandomi l'ennesimo cambio di programma.

"Eva purtroppo devo rimanere a cena con il Presidente, mi dispiace tanto ma abbiamo ridotto il numero del personale e visto che tu sei qui io ho deciso di rimanere in servizio, perciò devo coprire i turni dei miei colleghi."

"Non c'è problema papà, capisco." risposi rassegnata.

"Mi dispiace tanto, ci vediamo domani-" non fece in tempo a finire la frase che sotto sentii la voce di un altro uomo vicino a quella di mio padre che diceva: "Luciano è tua figlia? Invitala con noi, ho invitato anche altri assistenti: cerchiamo di dare una parvenza di normalità a tutta questa situazione."
Riconobbi subito il tono elegante e gentile di Giuseppe.

"Presidente, ad Eva non scoccia stare sola, è sicuro che possa venire?"

"Certo Luciano, saremo nella sala grande alle 20.30!"

"Eva hai sentito? Mi raccomando non tardare!"

"Si papà, ma-" non mi lasciò neanche finire di parlare, chiuse subito la telefonata.

Mi alzai subito dal letto, sentendo l'impulso di sistemare i miei capelli e il mio viso nel migliore dei modi, poiché in fondo quello era un luogo elegante e dato che non sapevo quanto a lungo sarei rimasta avevo portato pochi e semplici vestiti, perciò dovevo rimediare come meglio potevo.
Cercai a lungo nella mia piccola valigia e alla fine decisi di non pensarci troppo e indossare un total black semplice ed elegante.
Puntuale come un orologio uscii dalla mia stanza con in mano il cellulare e una pochette minuscola in cui nascondere le sigarette. Non feci in tempo ad uscire che mi sentii chiamare: "Signorina viene con noi a cena, giusto?"

"Presidente, -esclamai colta di sorpresa- si! Stavo proprio scendendo."

"Allora andiamo insieme! Lei alloggia qui?" chiese indicando la porta della mia stanza.

"Si." asserii io intimidita.

"Ah, l'hanno messa vicino a me, io sto proprio là in fondo, vede?" disse indicando la fine del lungo corridoio e avvicinandosi castamente alla mia spalla con la sua.

"Vedo." risposi a bocca asciutta.

"Bene, andiamo? Ci staranno aspettando."

"Certo!"

Camminai fianco a fianco con il Presidente, annusando di tanto in tanto il profumo dolce della sua colonia che inebriava completamente le mie narici: un ulteriore segno della sua eleganza, pensai.

Seduta tra mio padre e il collaboratore che mi aveva accompagnato una decina di giorni prima nella mia stanza, ascoltavo con piacere i discorsi di quella piccola tavolata, lanciando ogni tanto un'occhiata fugace al Presidente che ascoltava pensieroso ogni parola. Solo una volta i nostri sguardi si erano incrociati, solo per un paio di istanti, quelli necessari a me per distogliere gli occhi e rendermi conto del colore purpureo che le mie gote avevano assunto. Sperai che non se ne fosse accorto, che figura avrei fatto?

Alzandomi alla fine della cena, insieme agli altri commensali, salutai mio padre e tornai alla mia stanza, ma prima di entrare aprii la portafinestra del piccolo terrazzino davanti alla porta, per fumare l'ultima sigaretta della giornata.
I discorsi di quella sera mi avevano riportato alla realtà che avevo abbandonato fuori: tutti quei contagi, famiglie distrutte e ragazzi disorientati. Percepii la gravità della situazione tutta in una volta e mi fermai a pensare a tutti i miei cari, ai miei amici.

Sentii la portafinestra del terrazzino aprirsi e la figura dolce del Presidente guardarmi con la sorpresa di un bambino nel trovarmi intenta a maneggiare una sigaretta.

"Non si può fumare?" chiesi preoccupata.

"Si, qua si può." rispose secco per poi tentennare e chiedermi: "Non è mia abitudine, è un vizio che ho abbandonato tempo fa ma-"

"Prego." dissi porgendogli il mio pacchetto di Marlboro gold anticipando la sua domanda che avrebbe potuto metterlo in imbarazzo.

"Ha visto quanto personale?" disse sarcasticamente velando un sorriso con il fumo della sigaretta.

"Erano tutti a cena?"

"Mancava una signora e un ragazzo, gli altri a casa tutti. Questa situazione sta colpendo tutti, anche noi."

Non sapevo come controbattere, provavo un senso di vergogna e timore di dire la cosa sbagliata, così aspettai che dicesse qualcos'altro: "Anche la mia assistente è dovuta tornare a casa sua." continuò.

"È una situazione difficile." tentai di controbattere.

"E tu? Scusa, ti do del tu, ti spiace?"

"Assolutamente no. Io sto stendendo la bibliografia della mia tesi, diciamo che non mi annoio!" risposi ridendo.

"Tesi su cosa?" chiese lui interessato.

"Mobbing, potere e contratti verbali."

"Mi riporti ad una parte di vita ormai distante, scrissi dei manuali su questo argomento, sai?"

"Si, beh -ero imbarazzata non sapevo come dirgli che avevo studiato a lungo le sue parole e che mi avevano ispirata per la mia tesi- ho letto qualcosa."

Lui rise guardandomi. Io cercai di nascondere il volto.

"Ti lascio andare, a domani!" mi disse vedendomi spegnere la sigaretta ormai esaurita.

"Arrivederci Presidente!" dissi sperando che quel domani arrivasse presto.

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