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«Sei uno zuccone!»

«Puoi pure dirmi che non capisco un cazzo se vuoi.»

I grandi occhi nocciola di Ali si assottigliarono: «Mm, non so, non mi sembrava il caso, hai un caratteraccio.»

«Oh, be', questo è un complimento.»

Mercoledì. Il giorno prima, come d'accordo, si erano visti a casa di lei. Avevano studiato, chiacchierato e ancora studiato per tutto il pomeriggio e Ali lo aveva pure convinto a fare merenda con i pop corn mentre guardavano la puntata di una serie tv. Poi avevano rinnovato l'appuntamento per il giorno dopo.

Due pomeriggi a studiare non erano per lui un'abitudine, mentre Alice sembrava a suo agio tra penne, libri ed evidenziatori. La sua scrivania ne era ingombra, insieme a pile di carta, libri di scuola, quaderni, block notes, due portapenne, un lettore di libri digitale, una copia di Alice nel paese delle meraviglie, una tazza con il disegno dello Stregatto e un piccolo porta candele in stile shabby.

"Che ragazza strana." Yan la conosceva solo per come la vedeva a scuola, allegra e simpatica; non avrebbe mai potuto immaginare che si potesse essere felici con una stanza che in nemmeno una quindicina di metri quadrati ospitava due letti, la zona studio e l'armadio. L'arredo era carino e funzionale, ma la tenda colorata e il tappeto con l'illustrazione di una serie tv a lui sconosciuta gli facevano venire i brividi.

Cercò di mantenere lo sguardo su Alice, che lo fissava scuotendo la testa con fare quasi inconsapevole. «Sembri meno vanitoso oggi, è perché ti supero nello studio?»

«Mi superi, insomma...»

«Ti supero.» Gli sventolò in faccia il foglio su cui gli aveva fatto compilare una specie di test. «Hai risposto giusto a quattro domande, Yan.»

«Be', va bene.»

«Su venti.»

Distolse lo sguardo, per non mostrarle un lieve moto di imbarazzo che sicuramente i suoi occhi avrebbero svelato. «Okay, mi superi, ma ti raggiungerò.»

«Auguri.» Ali accartocciò il test nel palmo della mano e lo abbandonò dentro il cestino sotto alla scrivania. «Facciamo che studi da solo, perché non mi va di perdere tempo con qualcuno che mi chiede aiuto e poi non ci mette un minimo di impegno.»

«Ma che cazzo...» Yan si alzò da quella sedia oscenamente scomoda. «Io mi sono impegnato, ho studiato ieri.»

«Ieri. Con me. E poi a casa?» Si era fatto una doccia, si era sistemato i capelli, spalmato di crema tutto il corpo, fatto una maschera sul viso... «Ho studiato, un pochino.»

«Un cazzo non hai studiato.»

"Ma certo." Come aveva pensato di poter reggere il confronto con una delle più brave della classe? Quella stronzetta secchiona non era davvero interessata ad aiutarlo, ma intendeva solo mettere in mostra la propria bravura. «Sapientona del cazzo.» Spinse di lato la sedia con un piede e attraversò a pochi passi la stanza.

«Dove vai, cretino! Yan, Yan!» Lei gli venne dietro, la sentiva stargli appresso senza sapere come fermarlo. Yan dal canto suo non vedeva corridoi, né scale, notò appena anche la porta da cui uscì dall'appartamento. "Fanculo. Fanculo, e fanculo di nuovo." Davvero aveva pensato che a lei importasse aiutarlo; davvero aveva creduto che lei potesse aiutarlo? "Bella idea del cazzo, Yan."

«Ascolta, Yan, fermati porca miseria.»
Alice lo stava seguendo fuori da casa sua, giù per le scale del condominio e per un istante gli sfiorò una spalla. «Dai, non volevo farti arrabbiare. Ma anche tu, però, ti arrabbi per delle cazzate.»

«Cosa? Cazzate?» Yan avvertì un moto di rabbia esplodergli nel petto, così forte, come una scarica elettrica, che non poté fermarla e nemmeno ci provò. Si bloccò di colpo a metà scalinata e si volse puntando su Alice uno sguardo che sapeva essere esagerato, ma che non avrebbe mai ammesso neppure a se stesso. «Che hai detto? Cazzate? Secondo te questa cosa, i miei voti, la scuola, per me sono cazzate? La fai facile tu che hai una famiglia normale, che ti ama e ti paga gli studi senza rinfacciartelo ogni momento. E poi per te è semplice studiare. Ti piace, ti riesce facile. Sì, facile. E a me no, okay? Io odio studiare! Odio quelle cazzo di materie, odio venire a scuola, odio la mia vita, odio...»

Si bloccò, stavolta tappandosi mentalmente la bocca. "Cosa stavo per dire? Odio cosa?" Perché stava sfogando quel dolore, quelle frustrazioni su di lei, che conosceva così poco? Lei che forse non poteva neppure considerare amica?

Alice le stava di fronte, gli occhi atterriti, le labbra sottili schiuse su un mento rilassato che le conferiva una vera "faccia da patate." Su di lei era quasi carina quella faccia, ma non poteva permettere che la simpatia che provava lo distogliesse dai suoi obiettivi. Lui era Yan, che amava solo se stesso, pensava solo a se stesso e voleva solo se stesso.

Alice aveva lo sguardo di chi non capiva quasi che stesse succedendo e al contempo ebbe la sensazione che non stesse parlando solo perché avrebbe avuto troppo da ribattere. «Famiglia normale... così hai detto?» La voce le uscì in un sussurro, prima che Yan se ne andasse. «Mi pagano gli studi, certo. Questo è perché non sai un cazzo della mia vita, come io della tua. Ma io non ti giudico però. Non così.»

Yan sostenne il suo sguardo, che da perplesso, scioccato, si era colorato di una sgradevole sfumatura verdastra di rabbia. E forse invidia. Non era il verde il colore dell'invidia? pensò sorprendendo se stesso per quello stupido pensiero.

«E dato che dici che per me è tanto facile studiare, allora dimmi, se davvero ti do così fastidio, per che cazzo mi hai chiesto aiuto? Non è perché sono una merdosa secchiona. Ma no... caro il belloccio figlio di papà, l'hai fatto perché sapevi che io ti avrei detto di sì. Perché sono una stupida. Una fottuta, secchiona, stupida e ingenua.»

La voce di Alice s'incrinò; tentava di non piangere, ma i suoi occhi già stavano subendo l'iniziale ondata di lacrime. Così lucidi, con quel color nocciola dolce come miele di castagno, quello che suo padre inzuppava la mattina coi biscotti nel latte; così amareggiati e fragili che Yan guardandoli piantati su di sé si sentì invadere da un doloroso e opprimente senso di colpa. Non era un sentimento a cui era abituato, perché esisteva solo il suo di dispiacere, di dolore. Quando mai si soffermava su quello degli altri? E perché in quel momento lo stava facendo?

Troppo scosso da quei pensieri, da quegli spasmi che sentiva agitargli il petto così d'improvviso, si voltò dando le spalle all'altra evitando di guardare ancora quegli occhi; non tentò suo malgrado di rispondere, anche se una parte di lui lo avrebbe fatto e stava male a non farlo.

Avrebbe voluto sputarle addosso il resto del suo dolore, del suo disprezzo; dirle che non le importava niente se quello che aveva detto non era vero. Non gli importava conoscerla, non gli interessava sapere la verità sulla sua cazzo di famiglia felice e sui suoi cazzi di voti da secchiona.

Eppure non lo fece. Per qualche strana ragione evitò di parlarle anche dandole le spalle, perché sapeva che tanto quel litigio non valeva nulla. Con lui era così, non si poteva adoperare nessun tipo di offesa, anche se minima e volta ad aiutarlo a migliorarsi. In cuor suo sapeva che lei stava solo scherzando e che apprezzava il suo impegno; ma la sua mente, la sua fragile e stronza mente non gli permise neppure di pensarlo per più di un attimo.

La sentì mollare un singhiozzo, simile a un rutto da quanto l'aveva strozzato in gola; non potendo sopportare oltre quella grande, enorme, cazzata, mosse di forza i piedi per scendere di volata quegli stupidi gradini.



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