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«Cazzo, mi prendi per il culo.»

«No, maledizione, non scherzerei su queste cose. Non sulla mamma.» Il volto di Arianna era una maschera di sofferenza, contornata dai lunghi capelli che ora gli apparivano addirittura meno folti e dal colore più smorto.

«Sicura?»
Non ci credeva. Non riusciva a concepire quell'assurdo pensiero nella sua mente, che si era raggomitolato in un angolo nascosto.

«Ma cosa le è successo?»
Che cos'aveva sua zia? Sentiva il disperato bisogno di razionalizzare, perché la confusione non prendesse il sopravvento.

«Si è sentita male poco prima di pranzo. Sembrava un infarto, però hanno detto che il cuore sembra apposto. Ma c'è qualcosa che non va e non sanno cosa.» Arianna respirò a fondo. I suoi occhi luccicarono argentei di lacrime che tratteneva a stento.
«Sono così in ansia. Ho paura che abbia qualcosa di brutto. Non posso credere che...»
Lasciò la frase sospesa nell'aria che in quei due metri li separava. Yan si sarebbe dispiaciuto per lei se solo non fosse già rinchiuso nella sua angoscia.

Si vestì muovendosi come un'automa, poi abbandonò la cugina al suo stato di frustrazione. Avvertì anche da distante la sua voglia, il suo bisogno, di conforto. Voleva solo essere consolata e forse abbracciata, ma lui non era la persona giusta. Uscì con passo strascicato dalla porta di casa.



Non sentiva più il suo fondoschiena da quanto era stato immobile nella stessa posizione.

Il candore dell'ospedale lo accecava e allo stesso tempo riportava al suo stato quasi catatonico. Attorno a lui pareva che tutto si fosse fermato e la medesima scena si susseguiva in un loop assillante nella sua mente, tanto vivido che quasi vedeva tutto davanti a sè. Lui che raggiungeva, a passo di robot, l'ospedale, chiedeva a un'infermiera di passaggio dove si trovasse Angela Bordignoni. E la risposta, scioccante. Sua zia aveva avuto un infarto ed era in terapia intensiva.

Con il mondo che gli girava attorno, senza più avere la consapevolezza del suo corpo, Yan si era accasciato su quella sedia scomoda, così lontana dalla sua comoda poltrona nella sua bellissima stanza.
Arianna l'aveva raggiunto poco dopo. La rivide correre verso di lui, coi capelli che le coprivano metà volto, vestita in modo disordinato, senza borsa e col cappotto già sbottonato. Negli occhi, spalancati nel vuoto, lo sguardo di chi sapeva già. Forse le avevano telefonato.

Sua zia aveva avuto un infarto quando era già in ospedale; infarto che poteva comunque averle danneggiato gravemente il cuore. Rapito da quella sconvolgente incertezza, Yan non avvertiva più il suo di cuore. Un battito debole, distante, che al contempo rimbombava nella sua testa ritmico come il rumore di un metronomo, segnava il riavvio di quella stessa scena.
E alla fine arrivava la parte peggiore, il dolore più grande.

Arianna non l'aveva degnato di uno sguardo. Si era seduta però accanto a lui, le mani giunte in grembo. In silenzio pregava, con un leggero bisbiglio usciva di tanto in tanto dalle sue labbra pallide.

Quei bisbigli, Yan sapeva che segnavano l'inizio della fine. Una figura ammantata in un funereo cappotto grigio antracite, la postura rigida, le mani strette a pugno, si avvicinava a loro. Era la fine della scena.

Suo zio. Yan evitava il suo sguardo e tentava di non ascoltare i suoi insulti, deglutendo l'acido che risaliva dal suo stomaco ad ogni parola di disprezzo. Le lacrime avrebbero voluto prendere la loro via naturale all'esterno, ma Yan le aveva ricacciate indietro.

Come poteva fare così in quel momento? Come poteva crederlo davvero colpevole dell'improvviso crollo di salute della moglie? Come poteva essere colpa sua? Eppure, nel profondo della sua mente, un sentimento troppo simile al senso di colpa si era insinuato e a velocità allarmante si stava avvicinando ai suoi condotti lacrimali. Ma ancora una volta si trattenne, adoperando tutta la forza di cui era capace.

Quello schiaffo in pieno volto, però, era arrivato comunque. L'aveva ricevuto senza opporsi né reagire. Il dolore per sua zia aveva sovrastato la rabbia verso quell'uomo che ormai non riusciva più a considerare parte della famiglia. Era sua zia, la dolce zia Angela, la sua famiglia.

Così il loop terminava, con quello schiaffo, un ultimo secco insulto e rumore di passi che se ne andavano mentre Yan chinava sempre più la testa. Infine l'aveva poggiata alle ginocchia, che si era portato al petto rannicchiandosi sulla sedia.



Quanto tempo era trascorso da quando era arrivato in ospedale? Un'ora? Due ore? Tre? Potevano anche essere quattro, da quanto ne sapeva.

Un fastidioso senso di vuoto allo stomaco gli ricordò che doveva essere ora di cena. La mattina l'aveva passata a scuola, poi era stato da Alice. Avevano fatto la pace. Poi aveva chiamato Doriana. Aveva dormito? Aveva fatto la doccia e poi Arianna... Non capiva più niente. Si sentiva scombussolato, confuso, non ricordava più che giorno fosse.

Solo il dito continuava a fare male, quello che si era ferito con le forbici. Si era messo un guanto prima di lavarsi? Si era ricordato di cambiare le bende? Forse doveva farsi dare un'occhiata.

Arianna si alzò di scatto, strappandolo al suo tormento. Seguì il suo sguardo, puntato su un medico che stava venendo verso di loro. Era una donna. Camice bianco svolazzante ai suoi piedi, con una camminata che pareva più quella di Pamela Anderson in Baywatch che al serioso passo di un dottore. Forse la notizia che era venuta a portare non era poi tanto brutta.
Yan sperò che fosse più bella del suo trucco sfatto, le labbra sottili e i capelli ricci.

Arianna piombò nel campo visivo della dottoressa prima che questa potesse anche solo guardarsi attorno per cercarli.
Le vide parlare ma non poteva o non voleva sentire ciò che si stavano dicendo. Arianna le dava le spalle, le braccia penzoloni lungo i fianchi, si vedeva che teneva il capo chino e Yan lo interpretò come un segno negativo.

Si alzò, lento, non riuscendo più a sopportare quella tensione. Ora che era venuto il momento, non voleva più sapere.
Le gambe indolenzite si diresse fuori dall'ospedale e si accasciò sul bordo del marciapiede perché non vedeva panchine. Era un po' in disparte dall'entrata, perciò non c'era confusione; solo tante auto parcheggiate.

Le braccia a circondare le ginocchia e la testa incassata nel mezzo, Yan provò a piangere, ma le lacrime non arrivarono. Solo un cupo e secco dolore gli fece compagnia finché il buio della notte lo avvolse, freddo e solitario come lui. O talmente pregno di emozioni che preferiva inglobarle dentro sé poiché sfogarle sarebbe stato troppo doloroso.



«Yan? Scemo, mi senti?»
Una voce odiosa strillava il suo nome. Sentiva il rumore di un auto accesa vicino a lui e l'odore della benzina. "Fanculo."

Dischiuse le palpebre e sollevò il capo. Quella posizione gli aveva irrigidito i muscoli del collo, così si portò una mano alla nuca per un breve massaggio.

«Quando hai finito dimmelo, bella addormentata.»

Yan si drizzò di scatto. Aveva appena riconosciuto quella voce. Puntò gli occhi, secchi e appiccicati di un paio di lacrime forse uscite durante il sonno, sull'auto verde bottiglia che avrebbe fatto pena anche a un barbone. Sembrava una scatola di latta sopra quattro ruotini di scorta.

Dal finestrino del guidatore spuntava una testa di ricci rossastri, che facevano da aureola a un volto dai tratti non proprio gradevoli. «Che cazzo ci fai qui?»

Doriana si aggiustò gli occhialoni squadrati, che certo non la rendevano più aggraziata. «Bello mio, potrei farti la stessa domanda.»

Seguendo lo sguardo stupito dell'altra, si rese conto allora di essere seduto sul marciapiede. Saltò subito in piedi e si spolverò i vestiti con le mani.

«Allora? Salti su o no?»

«E perché dovrei?»

Doriana sollevò il vetro del finestrino. La sentì ingranare la marcia. Sguardo dritto sulla strada, mani strette sul volante e lo sguardo sicuro di chi sapeva di avere già vinto. Ma vinto cosa?

Yan la vide partire, lenta, come stesse aspettando che lui ci riflettesse. Forse, pensò, accettare un passaggio da lei era la soluzione migliore. Che cos'avrebbe fatto altrimenti? Sarebbe rimasto chiuso nella sua angoscia con il culo sul marciapiede?
Non voleva tornare a casa, dove prima o dopo si sarebbe imbattuto in suo zio o sua cugina; non voleva rientrare in quel dannato ospedale. Come poteva accettare che sua zia stesse morendo o fosse già morta?

"No." Scosse la testa, rilasciando la presa stretta sulle proprie tempie doloranti. Afferrò il cellulare, che non sapeva nemmeno di avere portato con sé.

Bastò uno squillo. «Dimmi, Martini.»

«Dovrai darmi qualche spiegazione.»

«Okay, ma intanto la vuoi una tazza di cioccolata?»

No, la cioccolata forse no, ma non voleva nemmeno stare lì. Era sicuro che si sarebbe sentito meglio una volta lasciato alle spalle il puzzo di disinfettante e quell'atmosfera carica di tensione. «Sì, come no. Lo sai che adoro la cioccolata.»

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