Capitolo 8 | I motivi del rapimento

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Noah non ricordava come fosse finiti lì. Nella sua mente c'era un blackout fisso, una specie di enorme confusione che non riusciva a gestire. Era come se un'enorme nube vaporosa gli annidasse la mente, come se le ore precedenti fossero state cancellate. Poi, come in una serie di flashback ravvicinati, le immagini gli tornarono in mente susseguendosi come diapositive: il pestaggio ricevuto da Adam Il Colosso, il salvataggio del dottor Burch, il suo tentato suicidio, l'ingresso in Villa Jushet e...poi...erano stati aggrediti. Qualcuno aveva deciso che avevano visto fin troppo, di quel posto.

Noah si sollevò di scatto dal suolo, facendo leva sui reni per trovare la forza di drizzarsi in posizione verticale. Prima di farlo, però, con i palmi delle mani tastò la superficie su cui si trovavano: pietra nuda e umida, con il puzzo dell'acqua putrida che gli violentava i sensi. Il ragazzino guardò alla sua sinistra: il dottor Phil Burch era ancora esanime, stravolto al suolo. Il corpo completamente rilasciato, il completo buono che indossava macchiato di fango e sudore. Alla sua destra c'era il buio totale. Allungò una mano e incontrò il muro. Poi guardò dinanzi a sé e cerco di camminare, ma era ancora debole. Le gambe non risposero all'impulso e fecero capitolare Noah a terra, facendogli impattare il sedere al suolo. Ah, ecco, ora ricordava con precisione: la donna dai capelli argentei e dal naso bitorzoluto, l'altra donna più giovane che li aveva trafitti con quei lunghi aghi nel collo. Cosa stava succedendo? Perché quell'aggressività? Il suo primo istinto fu quello di far presente a Phil in che razza di posto si trovavano. La cella in cui si trovavano – perché era una cella, Noah lo capì dalle sbarre dinanzi a sé imperlate e illuminate dall'unica fioca fonte di luce proveniente da una lampada ad olio poggiata su quello che in chiaroscuro sembrava un tavolino di legno – non aveva per niente uno stile somigliante alla villa. L'edificio era elegante, un po' malridotto, tuttavia arredato con gusto: ampie stanze si rincorrevano con stile chic, mentre il posto in cui si trovavano in quel momento era umido, vecchio e puzzava di stantio. Doveva essere una zona della villa non abitata o comunque una zona remota dell'abitazione. Non credeva che qualcuno li avesse spostati, che li avesse addirittura trasportati in una parte diversa dalla città. Per quel motivo, legato solamente alle proprie sensazioni, aveva scartato l'idea che qualcuno fosse stato così arguto e drastico da allontanarli dalla villa.

«Phil, Phil!» urlò scuotendo il dottor Burch.

Quest'ultimo sobbalzò e riprese conoscenza. Si fissò attorno con fare istintivo, come una gazzella in procinto di comprendere le dinamiche che avrebbero inevitabilemente portato alla propria cattura per mano del leone della Savana, ma non riuscì a darsi spiegazione di cosa fosse realmente accaduto e iniziò a muoversi con compulsione, agitando i piedi e dimenandosi per venti lunghi secondi prima di riacquistare dignità e capire che no, non c'era niente da temere, almeno in quella cella.

«Dove siamo?» riuscì a dire.

«In una cella».

«In una cella?» ripeté Phil. «Diamine, cos'è successo? Ah no, mi ricordo. Ci hanno colpiti con...che cos'era? Una siringa? Dove sono quelle due?».

«Le due donne? Sparite. Ho ripreso i sensi pochi minuti fa e qui non ci sono».

«Sarai contento, ora».

«Cosa?» Noah assunse un'espressione offesa. Voleva dargli la colpa?

«Sai che voglio dire» Phil portò una mano fra i capelli scuri per ravvivarseli e constatò di avere terriccio incastrato fra i ciuffi anteriori della folta chioma. «Hai insistito per entrare e per dare un'occhiata e ora siamo chissà dove prigionieri di chissà chi. Aspetta che esca da qui e poi dirò tutto ai tuoi genitori. Ti farò passare l'estate a casa in punizione».

«Bah, tu non sei mio padre».

«No, ma è una fortuna per te. Se fossi tuo padre ti avrei già rifilato un ceffone per la tua testardaggine».

Il Segreto di Villa JushetDove le storie prendono vita. Scoprilo ora