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"I have a great fearof drowing
in the ocean of my
own silence"


Dicono che dopo che hai ammazzato la prima volta, quelle che seguono sono più facili. Un po' come quando fai il primo esame all'università, che ti sembra qualcosa di insuperabile, difficile, ma dopo che lo hai superato ti rendi conto che in fin dei conti non era così tragica come te l'aspettavi. Anche se nel mio caso questo non sarebbe proprio il paragone migliore da fare visto che ho smesso ufficialmente di piangere il giorno prima dell'esame solo al penultimo anno. Perché sì, l'ansia non guarda in faccia a nessuno, nemmeno a chi possiede una memoria da elefante.

Forse è per questo che due settimane dopo il mio primo lavoro, Ra decise di assegnarmene un altro, nonostante il macello combinato la prima volta. Immagino volesse vedere come sarebbe andata al secondo giro, anche se, volendo essere precisi, quello sarebbe stato il mio terzo omicidio.

E forse è anche perché questo secondo lavoro era andato benissimo, contro ogni mia aspettativa, che una volta fuori dalla portata della polizia e di eventuali testimoni, mi ero letteralmente fiondata addosso ad Aaron baciandolo e, una volta arrivati a casa, ci ero andata a letto.

La mattina dopo, una volta sveglia e ritornata in me, mentre recuperavo i miei vestiti per tornare nella mia camera, mi ripromisi che non sarebbe più successo.

E quasi ci riuscii. Per un mese e mezzo evitai Aaron come la peste nera, Ra non mi aveva affidato altri lavori e le uniche occasioni in cui ero costretta a incrociare il figlio maggiore era durante le feste che si svolgevano nel cortile della nostra casa quasi ogni fine settimana. Che poi erano le stesse occasioni in cui riuscivo a vedere Cam e a scambiarci due parole. E quando dico due, intendo letteralmente.

Mi sentivo terribilmente sola, non avevo nessuno con cui potermi sfogare, avevo amici a scuola, ma molti li avevo allontanati dopo tutto quello che era successo. Non lo avevo fatto di proposito, così come non avevo smesso di proposito di ridurre drasticamente il cibo che ingerivo.

Il fatto che avessi ben poche interazioni con persone sia al di fuori della casa che all'interno non aveva fatto altro che farmi a pezzi, ma di certo non lo avrei mai mostrato. Così avevo semplicemente mandato tutto giù, interiorizzandolo.

Mi rifiutai persino di ritornare a casa per le feste di Natale. Non avevo il coraggio di guardare i miei genitori, i miei fratelli e fingere che andasse tutto bene. Potevo ingannare il resto del mondo, ma quanto sarebbe durata? Sapevo perfettamente che se fossi tornata a casa tutti i muri che avevo alzato per estraniarmi da quello che mi stava accadendo sarebbero crollati. E non potevo permettermelo.

Dopo aver passato più di due ore al telefono con mio padre cercando dicendogli che avevo dei lavori di gruppo da sbrigare e parecchio da studiare e dopo una lunga opera di convincimento affinché non portasse tutta la famiglia in gita turistica a Londra per Natale, ero riuscita a convincerlo che passare il Natale da sola non sarebbe stato tragico come credeva. E poi c'erano i miei amici, sarei andata da loro per le feste.

Bugie.

Tutte bugie.

Non avevo mai passato un Natale da sola, amavo stare in mezzo alla gente e soprattutto passare del tempo con i miei parenti, visto che l'unica occasione in cui li vedevo tutti era a Natale.

Non avevo nessuno da cui andare per passare le vacanze in compagnia.

Ero già pronta a passare la mattina del 25 Dicembre chiusa in stanza, quando Ra, dopo aver scoperto che sarei rimasta a Londra per le vacanze, decise di spedirmi, assieme ad Aaron, a Mosca, per un lavoro.

La ragazza bugiardaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora