Il Regno dei Casinisti [1]

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Michele suonò il campanello e rimase in attesa

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Michele suonò il campanello e rimase in attesa.

Era mattina ormai, poco dopo l'alba, anche se non avrebbe saputo dire con precisione l'ora. Dondolò sui talloni e aspettò, chiedendosi quale fosse la migliore linea d'azione da adottare per ciò che lo aspettava. Il silenzio sembrava un'opzione niente male, sperava solo non lo riempissero di domande su dove fosse stato e cosa avesse fatto. Se me lo chiedono, dico che mi sono drogato in un vicolo e che poi ho fatto sesso non protetto. Ridacchiò tra sé, ma fu interrotto dallo scattare della serratura.

La donna lo guardava, occhi duri che reggevano i suoi.

«Non azzardarti mai più» soffiò, assottigliando le palpebre. Michele abbassò lo sguardo, in silenzio.

Alla fine, lei si spostò, lasciando l'anta aperta per permettergli di entrare. Lui schizzò dentro, verso la sua stanza. Si cambiò rapidamente e preparò lo zaino a caso, acciuffando cellulare e chiavi prima di uscire, con passi lunghi e veloci. Neanche dieci minuti dopo essere entrato, era già fuori, diretto verso scuola a passo di marcia.

Sospirò di sollievo nel trovarsi davanti l'edificio, mani nelle tasche. Era ancora presto, però, e gli ingressi erano sbarrati. Decise di dirigersi verso il bar per prendere un caffè, visto che praticamente stava in after.

Fu accolto dall'odore di dolci, assieme al muoversi concitato dei tipi dietro il bancone. Fece per avvicinarsi a questo, ponderando col tatto quanti centesimi gli fossero rimasti in tasca.

«Michele, ciao! Siediti con noi!»

Si voltò e trovò Simone e la sua tipa seduti a un divanetto, lui col braccio standard attorno alle spalle di lei. Perché? C'era un motivo in particolare? Mah.

«Eccomi. Giungo a fare il terzo incomodo» li salutò e la ragazza sorrise, Simone che inarcava un sopracciglio, giustamente forse irritato dalla sua presenza non richiesta. Michele si abbandonò seduto al suo fianco, ambendo con desiderio il caffè da spararsi in vena.

«Hai visto che casino ha fatto Amelia?» disse il ragazzo, voltandosi appena verso di lui.

«Perché? Che ha fatto?»

Simone levò il braccio dalla ragazza, che aveva iniziato ad addentare il suo cornetto, per pescare il cellulare dalla tasca del giubbotto. Fece il solito movimento per spostarsi la frangia dagli occhi e poi gli mostrò lo schermo.

«Oddio, che è 'sto poema?» il papiro verde chiaro sulla chat WhatsApp lo lasciò perplesso.

«Te lo risparmio. In pratica si sono messi d'accordo in questi giorni per parlare con la preside. Ecco, ieri Amelia si è incazzata un botto perché li ha mandati via senza neanche ascoltarli e alla fine in serata hanno deciso di organizzare tutto».

«Organizzare tutto? È quello che penso?» sorrise entusiasta e Simone alzò le sopracciglia.

«Questa mattina si vede, però secondo me si fa» rispose, il tono controllato nonostante avesse un'espressione identica alla sua, sul volto.

«Dio, che bello. Speriamo» Michele rise a bassa voce, l'entusiasmo a malapena trattenuto. Si scambiarono uno sguardo complice e poi l'attenzione fu tutta per la cameriera con i caffè.

Fecero passare una ventina di minuti, occupati soprattutto dalle chiacchiere della tipa di Simone, che lo inondava di domande mentre il ragazzo se ne stava al cellulare. Michele non ricordava assolutamente il nome di lei, ma ormai era troppo tardi per chiederglielo; perciò, doveva solo aspettare che qualcuno lo pronunciasse in sua presenza. Schivò, intanto, le domande pericolose con qualche mossa acrobatica e, alla fine, si alzarono per andare a scuola.

Attraversato il marciapiede, si ritrovarono dinanzi uno spettacolo quasi surreale. Gli studenti erano ammassati fuori l'ingresso, un chiacchiericcio generale a far vibrare l'aria. Sui gradini che portavano alle porte, c'erano dei ragazzi. Michele riconobbe il tuppo di Amelia, intenta a gridare in un megafono parole che lui non riusciva bene a distinguere. A giudicare dal pungo in aria e dall'impeto con cui le pronunciava, però, non doveva essere nulla di pacifico.

«Massimo è di là» Simone indicò l'altro lato della piazzetta e cercarono di sgusciare sui bordi della massa accalcata di studenti per raggiungere il suddetto punto. Trovarono il biondo che gridava con le mani chiuse a coppa, incitando il caos. Rebecca aveva degli occhiali da sole sul naso e una borsa sottobraccio.

«Amelia mi ha detto che si fa, raga!» Massimo si voltò verso di loro, salutandoli con un sorriso bianchissimo.

«Evvai!» «Oh sì!» esultarono contemporaneamente, girandosi tutti a guardare Amelia che ancora urlava il suo discorso poco distinguibile in quel megafono che chissà dove aveva trovato.

«Ma che sta dicendo?» Michele alzò un sopracciglio.

«È il suo discorso sulle motivazioni dietro questo gesto» Rebecca detta Rebby fece scoppiare la gomma da masticare con un ghigno «Insomma, lei ci crede davvero a tutte queste cose sui nostri diritti eccetera. Sente il bisogno di far partire il sermone... che poi sfocia in cose un po' politiche, diciamo».

«Salvini vaffanculo!» distinse Michele e lui fischiò per manifestare il suo sostegno all'affermazione.

«E vaffanculo a quelli che ci vogliono comandare! A nostro rischio e pericolo!».

Ora gli studenti si stavano agitando, fomentati da tutta quella passione comunista esternata con tanto calore.

«E noi sapete che facciamo?! Eh?! Ditelo, forza!».

Tutti gridarono, in un ammasso di parole scarsamente distinguibili. Il messaggio generale, però, era forte e chiaro. Amelia portò il megafono alle labbra e poi urlò, mettendoci letteralmente l'anima in ogni singola sillaba.

«NOI LA OCCUPIAMO, CAZZO!»

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