Psicanalisi e proposte preoccupanti [1]

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«Raccontami, Michele

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«Raccontami, Michele. Com'è la scuola?».

Il soffitto rosa pastello restituiva lo sguardo. Sotto la nuca, il divano accoglieva la testa, i capelli sparpagliati in faccia. Michele se ne stava lì steso, una gamba troppo lunga penzoloni oltre il bracciolo e le dita intrecciate sullo stomaco. Era un soffitto familiare, quello. Lo stesso che aveva osservato buona parte dei mesi estivi. E la voce che lo incitava ad aprirsi, anche quella era la stessa.

«È una scuola, Tania, come vuoi che sia? Traumatizzante, ovvio».

Fece scivolare lo sguardo di sbieco, per posarlo sulla donna seduta alla poltrona. Un paio di occhiali sobri se ne stavano in equilibrio su un naso dritto e sottile, capelli chiari raccolti in uno chignon. Lo scrutava come a volergli leggere il cervello, da brava strizzacervelli doc.

«Hai fatto amicizia? Ci hai almeno provato?» sospirò lei, sporgendosi in avanti.

«Nah» alzò le spalle e si grattò il naso. Quella rottura di palle settimanale era ormai abitudine, ma non per questo meno rottura di palle, soprattutto perché del tutto inutile.

«Cosa hai risposto a chi ti ha chiesto perché hai cambiato?» lo incitò. La luce della lampada donava ai fiori disegnati sulle pareti la stessa tonalità giallognola. Michele si perse ad osservare i dettagli del disegno su sfondo bianco che faceva da quadro: un paesaggio stilizzato carico di giochi di ombre.

«Risposta standard» rispose, atono.

«Qualche ragazzo carino?».

Michele roteò gli occhi a quella domanda e sogghignò.

«Più che ragazzo, il prof me lo farei molto volentieri».

Tania si mosse sulla poltrona, le spalle rigide in improvvisa allerta e Michele sedette di botto con i palmi volti verso di lei.

«Tranquilla, doc, me lo faccio solo nei miei sogni. Qualche sega e via, sono un tipo semplice io. Ci manca solo che si scopra che sono frocio e allora sì che posso mandare a quel paese la mia pace mentale in quella scuola».

Si accasciò con la schiena contro il divano, un angolo delle labbra alzato con fare sprezzante, le mani intrecciate tra le gambe larghe.

«Non ti senti ancora pronto per un coming out, Michele?».

La pietà nel suo sguardo fu breve, ma fece bruciare lo stomaco di Michele in una vampata di acido cloridrico.

«È il mondo a non essere pronto, non io» allontanò gli occhi, sprezzante «Fosse per me, sai quanto me ne frega. Ma qua siamo in Italia, patria di omofobi e leghisti, e non ci tengo a essere ammazzato da qualche liceale fascista».

«Non sono tutti così, lo sai...» alzò un sopracciglio lei «Tuo padre certo non lo è, perché non vuoi-».

«Ma perché devo per forza? Saranno pure cazzi miei, no?» la fronteggiò, un'aria di sfida sicuramente mal nascosta, come sempre quando Tania toccava l'argomento. L'occhio cadde sull'orologio dietro di lei, il cui ticchettio aveva accompagnato come sottofondo quell'ora di tortura cerebrale. Si alzò con un balzo e scattò a prendere la giacca, infilandola con gioia mal trattenuta. Tania sospirò.

«Ci vediamo anche il prossimo venerdì, allora».

Michele neanche la guardò e si fiondò alla porta, aprendola impetuosamente.

«Il momento che aspetto con più entusiasmo!» e se la chiuse dietro, premurandosi di metterci più impeto possibile.

La sala d'attesa odorava di quel terribile profumo per ambienti, le sedie imbottite ai lati mentre le superava rapido, evitando di soffermarsi sul depresso lì seduto, pronto a prendere il suo posto nello studio di Tania.

Il cervello vibrava, il ronzio di incazzatura, quello solito alla fine di ogni appuntamento con la sua personalissima psicologa, gli faceva scendere le scale tanto veloce da rischiare di prendersi una storta, le converse nere che battevano a terra a ogni gradino, se inciampassi e mi spaccassi la testa, a chi interesserebbe? A un cazzo di nessuno.

Fuori, la sferzata di vento fu come uno schiaffo in faccia, i capelli che volavano via e le palpebre socchiuse in automatico. Le macchine percorrevano quella via veloci, persone affaccendate nelle loro quotidianità che si muovevano rapide lungo il marciapiede mezzo scassato. Al telefono, col cane o semplicemente concentrate nell'arrivare presto a destinazione.

Michele spiaccicò la schiena contro il muro ruvido, una fitta tra le scapole messa rapidamente a tacere. Tirò fuori il pacco di Marlboro e poi la sigaretta. La tenne tra le labbra mentre cercava l'accendino. Inspirò, la vampata di nicotina come aria fresca per i suoi polmoni, i nervi che si distendevano e tranquillità artificiale a percorrergli le vene.

Puntò gli occhi sulla Fiat parcheggiata di fronte.

La portiera del conducente si aprì e un uomo sulla cinquantina ne uscì, capelli color pepe ancora folti, un volto stanco e palpebre pendenti mentre attraversava, diretto verso di lui.

Gli arrivò di fronte e si fronteggiarono in silenzio.

Michele fumava, gli occhi fissi nei suoi, nuvolette grigie ad accerchiarsi attorno alle sue labbra.

«Me ne dai una?» chiese, una voce roca e profonda ad accompagnare la richiesta mentre stendeva il palmo verso di lui. Michele esitò qualche istante, poi riprese il pacchetto e gliene diede una. Lui cacciò il suo accendino dalla tasca e se l'accese.

«Com'è andata oggi?» gli chiese, senza guardarlo. Anche Michele fece lo stesso.

«Come sempre» rispose.

«Ti stai trovando bene, con lei? O vuoi cambiare?».

«No, lei va bene».

Erbaccia verdastra spuntava dalle mattonelle del marciapiede e lì si posarono i suoi occhi. Continuarono a fumare e, alla fine, gettarono il mozzicone. Attraversarono insieme e raggiunsero la Fiat, Michele che andava dall'altro lato per salire sul posto del passeggero, suo padre a quello del guidatore.

Il viaggio in macchina fu silenzioso, come al solito. Michele teneva la testa appoggiata sul finestrino, gli occhi a perdersi nel seguire la sfilza di lampioni e le vetrine dei negozi. Guardò di sfuggita l'uomo che l'aveva messo al mondo e di cui, fino a qualche mese prima, aveva solo un vago ricordo infantile. Uno sconosciuto, ma anche quello che gli dava un tetto sopra la testa. Michele era maggiorenne, poteva lavorare, andarsene a vivere da solo e tutto il resto. Di fatto, aveva seriamente pensato di fare così, però abbandonare gli studi prima del diploma era un suicidio per il futuro. Poteva fare entrambe le cose, sì, vivere da solo e andare al liceo.

Se, però, poteva vivere da parassita a spese di suo padre, tanto meglio per lui.

Che stronzo, eh, papino?

E tornò a guardare il mondo attraverso il vetro sporco di quella Fiat scassata.

Arrivarono infine al condominio e Fabio Russo parcheggiò vicino il portone. Il silenzio continuava a frapporsi tra loro mentre salivano le scale e poi Michele aspettò che lui infilasse le chiavi nella serratura per aprire. Dentro, fu salutato dal salotto a cui ormai si era abituato, mobili di media qualità, l'aria di casa vissuta con quei giocattoli sparsi in giro e gli odori scaturiti dalla cucina, accompagnati dal suono dei fornelli. Il figlio di suo padre studiava seduto al tavolo, la voce di sua moglie impegnata a chiacchierare col pargoletto con un tono esageratamente entusiasta a colorare l'atmosfera. Quando il bambino lo vide, sgranò gli occhi, come sempre spaventato dalla sua presenza che ancora gli era estranea.

Sono un estraneo in questa famiglia.

Suo padre si avviò verso di loro, ma Michele camminò verso quella che era diventata la sua stanza, una volta studio. Buona parte del materiale da lavoro, roba da geometra che gli era estranea, era stata spostava altrove, ma una scrivania di acciaio era rimasta azzeccata al muro. Ora c'era un letto comprato velocemente all'Ikea dall'altro lato e fu lì che Michele si buttò steso.

Chiuse gli occhi, mise le cuffie alle orecchie e si rifugiò nel suo mondo.

Rebel RebelDove le storie prendono vita. Scoprilo ora