Lapidazione [1]

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Quando la campanella suonò a indicare l'inizio delle lezioni, le prime dalla fine dell'occupazione, Michele si alzò dalla panchina

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Quando la campanella suonò a indicare l'inizio delle lezioni, le prime dalla fine dell'occupazione, Michele si alzò dalla panchina. Lanciò un'ultima occhiata alla fontana, spruzzi d'acqua ad alzarsi e lasciarsi cadere in una vasca ampia di pietra, piccioni a galleggiare su questa. Mani nelle tasche, si incamminò verso l'ingresso della scuola, il battito a tuonare nel petto, indice di una paura che cercava di scacciare, senza successo, da varie ore.

Percorse il sentiero familiare su per le scale, lungo il corridoio, destreggiandosi tra gli ultimi ritardatari, giocherellando intanto con l'accendino nel tentativo di calmarsi.

Piantò i piedi a terra, lo sguardo fisso su quel foglio che indicava la 5A, le chiacchiere che dall'interno lo assordavano, rumorose. Entrò, cercando di non sembrare una specie di cerbiatto spaventato. Che cavolo, ma che mi viene?

I volti che scattavano nella sua direzione quasi lo fecero fermare. Simone era già seduto e lo guardava, gli occhi sgranati, il cellulare abbandonato a mezz'aria.

«Ma insomma!» quasi cadde quando una figura non identificata gli afferrò il braccio con foga «Perché non me lo hai detto?»

Stranito, trovò il viso di Rebecca a troppa poca distanza e cercò di scostarsela, senza successo. Alla fine, lei lo liberò con un sospiro teatrale, le mani dalle unghie curate portate in alto.

«Ma perché dovevo dirtelo?» borbottò, roteando gli occhi e avviandosi scazzato al banco. Massimo, per nulla sorprendentemente, era seduto su questo, impedendogli di poggiare lo zaino, e alzò un sopracciglio nella sua direzione.

«Sei una piattola, lasciatelo dire».

«Ma guarda questo ingrato» Massimo si girò per rivolgergli un calcio, che Michele prontamente schivò.

«Stiamo cercando di farti capire» si intromise Rebecca con un gran sorriso «che ti accettiamo. È una bella cosa che sei gay, ok?».

«O mio Dio, basta» spinse giù Massimo. Lanciò lo zaino mezzo rotto sulla liscia superficie bianca e scostò con irritazione mal trattenuta la sedia, buttandosi su questa.

«Raccontaci come lo hai capito, dai».

Michele a prescindere mal tollerava la gente che gli si appiccicava a caso, ma doveva dire che quel giorno Rebecca stava battendo ogni record, con quel sorriso affettuoso, una mano sulla guancia come una specie di mammina. Gesù, aiutami.

«L'ho capito in base agli interessi delle mie seghe preadolescenziali, in che altro modo secondo te?»

Un verso di disgusto si alzò da Massimo, mentre invece Rebecca scoppiava a ridere e Simone si irrigidiva, storcendo la bocca stranito e, probabilmente, schifato. Fu salvato dalla prof che entrava col fiatone, la sua roba in equilibrio precario tra le braccia. Svogliati, tutti andarono a sedersi, le chiacchiere che sfumavano ma non si fermavano mentre la prof incespicava nell'aprire il computer interno alla cattedra.

Michele si lasciò scivolare lungo la sedia con uno sbuffo scocciato e con la coda dell'occhio notò Simone che posava il cellulare sul banco, poi, voltandosi, incontrò il suo sguardo su di sè.

«Che c'è?» assottigliò le palpebre, sospettoso, e quello riprese in fretta il suo aggeggio elettronico per sbloccarlo, il capo chino. Si mordeva la guancia, sembrava nervoso, e questo accese una fiamma di dubbio in Michele.

«Anche tu hai qualche problema coi froci?» borbottò, stritolando le tasche dall'interno, il disagio che serpeggiava.

«Cosa? No» mormorò, un sopracciglio alzato nella sua direzione, grattandosi poi il naso con un gesto rapido «È solo- Niente».

«Solo cosa?» Michele lanciò un'occhiata rapida al tuppo gigante di Amelia che, per fortuna, lo copriva sufficientemente dalla vista scarsa della prof.

Simone mosse la mano a mezz'aria come a cercare le parole, lasciandosi scivolare più giù, le gambe larghe sotto il banco.

«Non lo sembri» ammise infine, a voce bassa.

«Ah, ok. La prossima volta entro in aula cavalcando un dildo gigante e sventolando una bandiera arcobaleno per fugare ogni dubbio».

«Dai» Simone ridacchiò, un'occhiata di sfuggita da sotto quella frangia, e Michele alzò due volte le sopracciglia per sottolineare le sue intenzioni poco sobrie. Il ragazzo abbassò lo sguardo, il cappuccio del giubbotto sportivo portato su per qualche motivo. Michele cacciò un quaderno a caso dallo zaino e lo aprì davanti a sé, giusto per evitare di essere beccato a non seguire nemmeno una parola di quello che la prof biascicava. Le sue frasi erano un susseguirsi atono privo di qualsivoglia coinvolgimento mentre semplicemente leggeva la biografia su Leopardi, un fiume placido di noia che rischiava di farlo addormentare sul colpo. Persino Annetta ogni tanto sembrava distrarsi, mentre Massimo, là fuori, se ne stava col cellulare sotto il banco.

«Madonna che palle questa» si passò una mano sulla fronte, scostando i ciuffi corvini. Rebecca e Amelia scrivevano qualcosa sul banco e si sporse per osservare quale opera artistica stessero mai compiendo. Si rivelò essere una partita a tris. Tra l'altro, Amelia mostrava una certa violenza nel tracciare le linee che indicavano la vittoria.

«Giochiamo pure noi, Simò» gli colpì la gamba con la propria per attirare la sua attenzione e quello sussultò. Michele scavò nello zaino e ne riemerse con due matite. Disegnò le caselle e mise il cerchio in quella di mezzo.

«Vai» lo incitò. Simone si avvicinò e alzò un sopracciglio.

«Come alle elementari? Ma dai» sbuffò, per poi mettere la x all'angolo. Giocarono per un'ora buona, tra imprecazioni a mezza voce e madonne buttate giù forse troppe volte. Quando la campanella suonò, Michele battè le mani con un'esclamazione entusiasta nel notare la sua vittoria sulle partite totali.

«Russo!» lo rimproverò la prof.

«Scusi, è che questa lezione è stata qualcosa di strepitoso. Mi sono emozionato» alzò un angolo delle labbra mentre la classe scoppiava a ridere, gli sguardi ammirati e divertiti degli altri che lo facevano sentire di nuovo padrone della propria vita, al sicuro dai giudizi inespressi di chi ora era a conoscenza del suo segreto più intimo. La prof fece partire una ramanzina quasi infinita e chissà quanto sarebbe andata avanti, se alla fine non si fosse ricordata di dover andare in un'altra classe.

Quando lei uscì incespicando su quei tacchetti, Michele si alzò con un sospiro.

«Devo pisciare, fuggo un attimo» sentenziò alla volta di Simone, che annuì, tornando in fretta a puntare gli occhi sul suo cellulare. Sbadigliò e uscì dall'aula, un'occhiata rapida al corridoio per essere sicuro di non essere beccato da nessuno. Diresse i passi strascicati verso il bagno e, quando aprì l'anta, si bloccò.

Ivan.

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