Basta una telefonata

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Probabilmente era stato il mio momento di gloria. Ma nessuno può saperlo con certezza. Anche i momenti più belli passano e credo nessuno se ne accorga. Avrei potuto fare la scorbutica e difficoltare il lavoro agli assistenti, ma presi un periodo di ferie da tutto quello che consideravano sbagliato. Potevo dirgli almeno un 'Buongiorno', prima di perdere il controllo. Ero al collegio, era sabato. E di sabato non si ha l'obbligo di restare dentro. Uscire a Londra mi risultava noioso. Passeggiare davanti al Big Ben, sorridere a Buckingham Palace, vedere il cambio della guardia, visitare il museo delle cere, comportarsi come dei turisti. Non era roba per me.

Lucilla entrò in stanza: -Ti cercano al telefono. Muoviti.-

Sarebbero dovuti essere di nuovo i miei genitori che mi chiamavano ansimanti, dopo che erano stati avvertiti di ciò che avevo fatto. Mio padre mi avrebbe passato mia madre che, come al solito, avrebbe criticato il livello di professionalità del personale.

-Pronto?

-Parlo con Sophie?

Quella voce... Si, proprio quella voce.

-C'è qualcuno?!

-Oh, si, scusi. Si, sono io. Chi mi cerca?

-Michael Holbrook Penniman, signorina.

-Come?

-Forse mi conosce come Mika. Ehm…mi devo abituare.

-Oh, già-, dissi fingendo di non aver già precedentemente capito.

-Sono fuori dal suo collegio e per qualche strano motivo il custode dell’edificio non vuole farmi entrare, replicando che non si accettano visitatori dopo gli orari affissi fuori.

-Vengo subito.

Era lì, fermo, fissava la strada come se non l'avesse mai vista.

-Oh, eccola!

-Si, eccomi. E’ successo qualcosa, ha bisogno di qualcosa?

-No, avevo solo bisogno di sapere come stava. Mi ha spaventato molto in aula, ieri. Volevo assicurarmi che stesse bene.

-Se le ho dato l’impressione che fosse colpa sua, non è così. Ero sotto pressione e io…insomma, spero lo sappia. Cioè, non voglio sembrarle pazza. Il mio analista dice che non lo sono. L’avranno informata, crisi epilettiche sono tipiche, si, insomma. Della schizofrenia. Lei lo sa, loro, loro sanno queste cose.

-Si, me l’hanno detto.

-Può evitare di darmi del Lei? Sono in soggezione.

-Ci proverò.

-In fondo non penso ci differiamo molto. Insomma, quanti anni ha?

-24. Diciamo che sono abbastanza, non troppi.

-Già.

Attimo di silenzio.

-Hai mai assaggiato il gelato, qui?

-Si e direi con orgoglio italiano che non è il massimo.

-Conosco un posto in cui, a fare il gelato, è un tizio italiano. Dice di chiamarsi Mario, ma non ha ne l’accento ne le sembianze italiane.

-Potrebbe indicarmelo, magari ci faccio un salto, uno di questi giorni.

-E se facessimo un salto insieme? Così. Hop! Hop!

Lo guardai sbalordita mentre saltellava nel cortile del collegio. Scoppiai a ridere e accettai l’invito. I suoi capelli mi attraevano molto, ma stetti zitta. Non dovevo spaventarlo troppo.

Camminavamo e sorridevamo. Sorridevamo e camminavamo. Niente di meglio. Mi riaccompagnò al collegio con la promessa che ci saremmo sentiti, in un modo a me ancora poco chiaro. Non sapevo come sarebbe finita: non avevo il suo numero, lui non aveva il mio. Ma sapeva dove stavo, quindi non mi restava che sperare o sparare. L'unica cosa veramente nauseante erano le domande delle compagne di stanza che, a mio parere, non uscivano con un ragazzo dall’era della pietra:

-Dove sei stata? Con chi eri? Con chi hai parlato? Eravate in macchina o a piedi? Ti sei divertita?

-Mamma mia... Basta. Si, era carino tutto. Il posto, le persone, la macchina e il tempo. Ma non vi dirò niente. 

Aiutami ad odiarti - MikaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora