Voglio il tuo profumo

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Appena entrata in stanza, mi buttai sul letto: dopo quei due giorni, non avevo voglia di fare niente. Chissà cosa stava facendo lui.

-Eilà!

Era entrata la mia compagna di stanza. Forse non vi ho parlato di lei: bionda, occhi azzurri, minigonna, calze da comparsa di film di Moccia. Guardandola direste che è la classica ragazza facile e io non mi sento in dovere di oppormi all’evidenza. Parla sempre di ragazzi e io personalmente non le confido mai le mie cose. Figuriamoci parlarle di Michael.
Lei adora i ragazzi fighi, con i capelli all’ultima tendenza, io preferisco il simpatico riccioluto, mai composto e sempre fuori luogo. Lei si vanta sempre con me di avere tutti questi ragazzi che le corrono dietro come cagnolini, e dice sempre che sono tutti ragazzi popolari. Peccato io non conosca nemmeno uno di loro. Qualunque sia il suo modo di fare, ammiro la sua forza d’animo e la sua capacità di farsi scivolare tutto il male e gli insulti.

-Ciao.

-Ciao…

-Mi hanno detto che hai avvisato la scuola che non avresti dormito qui, eri da qualcuno?

-Si, un’amica di mia mamma mi ha ospitata a casa sua, per farmi sentire più a mio agio. Sai, nuova città…

-Ah, gentile da parte sua. Comunque siamo qui da mesi, poteva ospitarti prima, no?

Il mondo è bello perché vario. Ci sono i fatti miei e i fatti tuoi.

-Si, in effetti ci ha pensato un po’ su.

-Va bene, ciao.

Uscita di scena alla “comparsa di un film di Moccia”.

Che avrei fatto un pomeriggio in collegio? Avrei voluto il suo numero, quello di Michael. Che poi, pensandoci bene, sarei stata delle ore a fissare il suo contatto e non lo avrei mai chiamato.

Aprii la porta e schizzai fuori. Diciamo che ne avevo il diritto. Era una bella giornata, tutto sommato. La prima soleggiata che avevo trovato da quando ero arrivata a Londra. Mi avevano consigliato un negozietto vintage all’angolo fra la tredicesima e la quindicesima strada. Mi sa che il collaboratore scolastico si era un po’ confuso. A Londra non dicono “tredicesima strada, quindicesima strada”. Ci stavo andando comunque: era bello camminare per Londra da sola, senza nessuno che mi dovesse dare indicazioni. Mi dava un senso di libertà e autonomia, indescrivibili. Ma mia madre non doveva saperlo. Per lei mi avrebbero dovuta accompagnare persino in bagno. Sicuramente non era la mia città, ma iniziavo a conoscere il quartiere come le mie tasche. E dire che io, le mie tasche, non le conosco molto bene.

-Good Morning! Can you please tell me where to find t-shirts?

-Good Morning! Follow me.

Passetti piccoli e delicati.

-Look, there!

-Oh, thanks!

-You’re welcome!

Avevo amato quei due secondi di dialogo. Cercavo la mia t-shirt. In realtà non avevo in mente di comprare qualcosa di preciso, ma volevo il dialogo e quindi avevo chiesto qualcosa di banale. Presa la mia banalissima t-shirt, mi diressi verso il collegio: l’unica strada che riuscivo a percorrere, senza perdermi. Entrai, ma all’ingresso non c’era nessuno. Avevo portato con me le chiavi, fortunatamente. Entrai in stanza e mi buttai sul letto: non avevo voglia di fare niente. Se non che, entrò Adam. Era un mio compagno di classe, non mi calcolava mai. Non sapevo nemmeno il suo cognome. Abbastanza alto, capelli castani a spazzola e occhi azzurri. Il solito perfettino, niente di che. Non c’avevo mai parlato, ma sembrava interessante. Ora la domanda era: cosa diavolo ci faceva nella mia stanza?

Aiutami ad odiarti - MikaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora