E' dura senza te, sai?

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-Ho capito, questa è casa tua. I tuoi infissi, i tuoi pavimenti, le tue sedie. Questo è chiaro. Ma che ci facciamo qui?


-Ma lo immagini minimamente quante ragazze pagherebbero per essere al tuo posto, adesso?


-Sai che fortuna…


-Mi prendi in giro?


-Forse.


Non lo stavo prendendo in giro, mi piaceva solo vederlo dannare. Non dannare, controbattere. Era bravo a controbattere. Era bravo in tutto, in realtà. Aveva una maglietta bianca, una giacca grigia e quella sua barbetta del giorno dopo. Era così che avevo sognato fosse. Era proprio così.

Frugava nella tracolla: non trovava le chiavi.
-Partiamo dal presupposto che quelle ragazze dovrebbero intanto pagare lo smarrimento delle chiavi, più che l’essere al mio posto.

-Non sei spiritosa. Non le trovo, non possiamo entrare e tra un po’ ricomincia a piovere.

-Relax, take it easy.

-Sei molto di aiuto.

Mi aveva fatto sorridere. Quella sua confusione generale, il panico negli occhi di un bambino che è inseguito da una paura troppo grande. Eravamo in sintonia e lui aveva trovato finalmente le chiavi. Entrammo e la piccola Melachi salutò educatamente il padrone, iniziando a leccargli le scarpe. Scena tenera, si direbbe, a non essere mocassini.

–Dì ciao a Sophie.

-E adesso parla pure col cane. Regolare, tutto regolare.

-Stai zitta.

Non riusciva proprio a fingersi severo.

Una grande scala in legno portava al luminosissimo secondo piano.

-Salgo un attimo a cambiarmi e poi andiamo.

Sapevo che non dovevo chiedere dove saremmo andati, tanto non me l’avrebbe detto. Giravo con occhi sognanti. In silenzio, camminavo senza farmi sentire. Non era esattamente la casa in cui avrei voluto vivere. Ma il problema, forse, era solo uno: avevo guardato troppi programmi che rappresentavano le case benestanti come regge illustri di poeti sconosciuti. Avidi personaggi parlavano della propria abitazione come se non esistesse meraviglia più grande. Mi avrebbe cacciata dal secondo piano, se solo avesse saputo che ero lì. Così, fare in silenzio mi dava un certo senso di invisibilità. Il secondo piano sembrava non finire più. Mi restava un’ultima stanza da vedere: aveva una porta strana, intagliata finemente da ricamature medievali, azzarderei a dire. Aprii la porta con grande sicurezza, senza troppi film mentali, ma: –Sophie! Ti avevo detto di restare sotto.-

-Scusami scusami…io…non volevo. Davvero, mi dispiace.

Era lì, davanti a me, a petto nudo, che mi guardava stranito. Mi dispiaceva davvero aver violato la sua privacy. Ma magari non così tanto averlo visto in veste naturale. Era così attraentemente dolce. Ma stavolta non sorrideva, anzi, era molto serio.

–Ho chiesto scusa. Più di questo cosa posso dirti? Ve la prendete tutti a morte con me. E non so nemmeno cosa ci faccio qui. Me ne vado.

Con forza sovrannaturale sbattei la porta e filai giù dalle scale. Non era la prima volta che non riuscivo a controllarmi. Alcuni miei neuroni si divertivano a fare i giri su se stessi e io non mi divertivo mai.

–Aspetta, ti prego. Mi dispiace averti rimproverata. Non era mia intenzione.
Mi aveva seguito fino a fuori la porta e, afferratomi il braccio, disse:

-Prima che qualche paparazzo si infiltri qui e mi faccia una foto mentre sono sotto casa a petto nudo, parlando con una ragazza e balbettando pure, vogliamo rientrare, per favore?

Aiutami ad odiarti - MikaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora