7. Marianne Saint-Laurent

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Non sono mai stato uno particolarmente loquace. Non sono mai stato uno che si perde in chiacchiere, ho sempre ascoltato. Si può dire che le persone che mi conoscono davvero si possono contare sulle dita di una mano o poco più. Non esageriamo, parliamo sempre di me, eh.

Sto ascoltando parlare mio fratello di qualcosa che riguarda una battuta di caccia che probabilmente faremo da lì per il Ringraziamento. Siamo canadesi per metà, ci piace cacciare e abbiamo una tenuta in mezzo ai boschi – località lussuosa, certo, ma pur sempre vicino al bosco – edificata apposta per rispondere a questo nostro desiderio, iniziato da nonno e trasmesso a noi.

«Se papà vuole mettere appesa un'altra testa d'alce, lo denuncio.» col tono veramente sicuro di sé stesso, Jacob mi sta riempiendo la serata con le sue chiacchiere.

Ruoto il cellulare nella mia mancina, lo sguardo è fisso su un punto del tavolo, lì dove qualche buccia di nocciolina è caduta dal contenitore degli scarti a causa dei movimenti non proprio curati di Jacob.

«Se papà porta un altro alce da impagliare a casa, sarà Rosalie a denunciarlo.» commento pigro. «Ancora marrone rovina la palette.» cit. più o meno.

Jacob ride, si stacca dalla sedia e si alza, senza rendersi conto di urtare, per sbaglio, una ragazza col suo braccio. Movimento che fa cascare la birra della ragazza come un peso morto che ricade sul pavimento, in mezzo a un gemito di stizza e stupore della stessa.

«Damn.» l'accento è prettamente francofono, tipicamente canadese.

Mi alzo, Jacob si volta ed entrambi guardiamo la ragazza. Assottiglio lo sguardo maggiormente mentre Jacob sta dicendo qualcosa che registro come scuse.

Io? La fisso.

L'ho già vista da qualche parte, so chi è.

«... no, Miss. Credimi ci tengo particolarmente.» sta dicendo Jacob. «Non è un problema, giusto Thomas?»

Avverto il suono del mio nome pronunciato da Jacob in tempo per riprendermi e non fare la figura del ritardato. «Ovviamente.» un cazzo. Non ho capito un cazzo.

Ma Jacob le scosta la sedia, lei sembra un po' accaldata, un misto fra la lusinga e l'infastidito mentre si accomoda e mio fratello richiama il cameriere per far sì che lei possa ordinare di nuovo.

«Jacob» si presenta mio fratello. «E abbiamo il piacere di parlare con...?»

«Marianne.» il sorriso dell'altra è quasi sardonico e il mio cervello si illumina.

Marianne Saint-Laurent. La cugina del premier canadese. Adesso ho veramente capito chi ho davanti.

Cosa cazzo ci fa lei qui a Toronto? E perché cazzo Jacob ci flirta così?

«Ah, sì. Lui è mio fratello, Thomas.» mi presenta Jacob, che sotto il tavolo mi dà un colpetto col piede verso la gamba della mia sedia, come a dirmi "ripigliati".

Non mostro un'emozione che sia una, porgo però la mano a Marianne e sfodero uno dei miei sorrisi perfetti. «Incantato.» dalla quantità di problemi che ci porterai – è il proseguo naturale.

Osservo Marianne e Jacob interagire, c'è alchimia anche se lei, ogni volta che risponde, sposta lo sguardo su di me.

Cerca approvazione, attenzioni.

Nessuno di noi ha usato i propri cognomi per presentarsi, nessuno di noi ne ha avuto bisogno: se qualcuno non ci conosce è perché è stato segregato in una grotta in Afghanistan probabilmente, soprattutto qui a Toronto. E poi lei è nella politica, dovrebbe saperlo chi sono gli alleati politici della famiglia e chi no.

Perché cazzo le sta chiedendo il numero di cellulare?

Io un giorno di questo ammazzerò mio fratello. Le mie mani si sporcheranno di sangue e Alex e Garrett dovranno difendermi in tribunale. Me lo sento.

"Evita di fornire materiale ai tuoi nemici", ovviamente vede la Saint-Laurent e la invita al tavolo.

Ovviamente ci flirta. Ovviamente le chiede il numero. Ed ovviamente mi mette in mezzo.

Un respiro, sto contando fino a dieci.

Lei sorride, un sorriso lusingato. Chi non lo sarebbe, andiamo. Finge di non sapere chi siamo, finge di essere disturbata dai provoloni, Jacob sta al gioco e quella ride. Sono troppo vecchio per queste cose.

«E tu?» parla con me ora. Jacob si è allontanato cinque minuti, lo ha fatto apposta - credo.

«Sono sempre Thomas.» ironico, butto giù un sorso della mia birra scura.

Mi sorride. «Lo vedo. Sembri impermeabile.»

Arcuo appena le sopracciglia, c'è una luce brillante nei miei occhi e qualcuno forse sa che cos'è: ironia, sarcasmo. «Sì? È il mio superpotere.»

La fisso, la osservo. Ha una bocca piena, occhi chiari e penetranti. Zigomi alti, è snella, slanciata. Poche curve, mora con dei riflessi ramati che sembrano darle luce. E lei è dannatamente consapevole di essere sexy in una maniera così plateale da essere vagamente ovvia. Ma vuole essere ricercata e io glielo sto lasciando credere.

«Una qualità del tutto Anderson?»

Angolo un sorrisetto sardonico. Smuovo la testa in cenno di diniego. «No. Solo mia.»

Sorride di nuovo, appoggia i gomiti al tavolo, la mancina si sposta i capelli dal viso e si morde appena il labbro inferiore. Si sta guardando intorno, cerca di capire quando tornerà Jacob senza darmelo troppo a vedere. Poi torna a guardarmi. Schiude le labbra e sembra sul punto di farmi una proposta indecente.

«Lo userai il mio numero?» per lei è un gioco. Sono un passatempo, un qualcosa che dà colore e sapore alla sua serata.

La fisso a lungo, il mio anulare sinistro batte pianissimo contro il vetro del boccale che stringo nella mano alternandosi al pollice.

«La Pizia era una sacerdotessa, una donna.» è evidente che non mi stia seguendo. Mi sollevo lentamente dalla seduta, raccolgo il bigliettino che lei ha lasciato sul tavolo col suo numero e lo metto nel portafogli che ho in mano. La guardo ancora una volta. «Io no.»

Prendo la mia giacca, la infilo con calma e guardo verso mio fratello che sta tornando.

«Il futuro è bello perché va' scoperto, non anticipato.»

Non ho dato una risposta, è delusa, io soddisfatto. È questo che conta per me.

***

Ventiquattro ore.

Questo il tempo che è bastato per far sì che ricevessi un invito indiretto.

Marianne è capace di molte cose, in particolar modo di levarmi ogni stilla di pazienza che sapientemente ho saputo costruirmi in una vita intera di sacrifici.

È giovane, irruenta. Crede di avere il mondo in tasca perché è riuscita in quella che era una missione suicida. Ed è morta, credetemi. È morta in un modo che nemmeno lei riesce a comprendere ma si sente viva, si sente nella ragione dei vincitori e sopravvissuti. Ha paura, ma non lo mostra – o almeno è ciò che lei dice e pensa di mostrare al mondo.

Non a me.

La scusa era banale.

"Mangi con me?"

Modi ricercati nella sua apparente semplicità, quel suo essere sfuggente sempre e comunque.

È frustrante. Sì. Frustrante ritrovarsi a guardarla e sapere che qualunque cosa ti dirà sarà solo per sfuggirti, per renderti pazzo e per innescare una caccia che non può permettersi.

Non ho fatto giri di parole, l'ho fatto capire cosa volessi esattamente da lei.

Altro. Non la carne, non quel stracazzo di pinot grigio che le ho portato. Niente di tutto questo.

E adesso, mentre mi vesto per andarmene via, mi sto appuntando mentalmente che le devo una camicetta nuova. Il pinot quella non la ripaga, è evidente. 

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