4. Ciao, Yale

71 9 0
                                    

Capire perché la mia vita sia impostata nell'esatto modo in cui la conduco è una sfida per chiunque. Lo è sempre stato, presumo, soprattutto se quel qualcuno si chiama William Anderson.
Le giornate stanno scivolando tranquille, tutto sommato, considerando che una situazione per essere da me classificata tranquilla deve rispettare solo un requisito: nessuna rottura di coglioni per me. E così sta andando. Mio padre, incredibilmente, ha trovato interessante il ritorno in politica di Jacob e quindi io sono libero di fare ciò che sapevo fare meglio: vivere senza di lui.

Chiunque conosca William Anderson ha ben chiara una cosa: prima o poi ti rovina. Non è mai importante il come, il perché, il quando. È solo questione di tempo, mio padre è un Re Mida novello che non trasforma un cazzo in oro, ma tutto in merda. E, puntualmente, la tua rovina coincide con i suoi successi perché laddove tu perisci, lui si glorifica. Ho visto questa dinamica per tutta una vita, ho visto vite su vite cadere a rotoli e finire nel baratro della rovina solo per un tocco di mio padre. Io stesso ho subito il trattamento Anderson. Essere suo figlio non significa essere esenti dal suo giudizio e sentenza.

Nel mio studio è tutto silenzioso, ovattato.
La vita di Toronto scorre in quelle strade, il panorama è mozzafiato, un autunno che prende più mordente in quel clima gelido canadese, ma la mia attenzione è tutta catalizzata sullo schermo del mio MacBook personale. Posizionato sulla scrivania, immacolato come se fosse uscito da due minuti dall'Apple Store più vicino, FaceTime si sta connettendo a una chiamata con una persona ben precisa.

La connessione è veloce, mentre aspetto risposta controllo alcuni documenti, riponendoli in una pila composta da pochissimi fogli seguendo un ordine preciso che può solo apparire casuale, ma non lo è per niente.

«Oh, ciao Yale.» la voce di Alexander mi arriva chiara, netta, senza interferenze.

«Hamilton.» alzo lo sguardo dai documenti, i miei occhi chiari fissano i lineamenti dell'altro. Lo trovo vagamente abbronzato, segno che sarà uscito in barca o simili. Alexander Logan Hamilton, un nome che non ha bisogno di molte presentazioni, un po' come quando dici Garrett Alan Richmond, o pronunci il mio, di nome. Come tutti gli Hamilton ricalca una fisicità precisa: moro, alto, e spallato. È completamente diverso dalla sorella, Mja.

«Come siamo abbronzati. Hai passato il fine settimana in barca con Giselle?» sono quasi certo di aver azzeccato il nome, stavolta.

«Non vedo Giselle da una vita.»

Ops. «Kalisa?» ritento, stare dietro alla vita sentimentale del mio migliore amico non è un'impresa facile, faccio l'avvocato non il giornalista per Vanity Fair.

Sento Alex ridere di gusto, si passa una mano fra i capelli scuri e poi mi fissa, sembra fermarsi e posare il cellulare in un punto che non richieda il sostegno di mano e conseguente braccio in cancrena dopo un tot. «Anderson, invecchi.» una pausa «Resto sempre sposato, lo sai.»

«Parla per te che ti sei giocato alla roulette una buona dose di neuroni l'ultima volta.»

«Il whiskey ne valeva la pena.» un respiro «Allora?»

Mi prendo il tempo di un battito di ciglia per posare i documenti nella loro cartelletta, richiuderla e scostarla prima di adagiare schiena e spalle allo schienale della mia poltrona e fissare il mio miglior amico. «Quando mi avevi detto che era un casino, non mi avevi definito il grado di casino.»

«Sarebbe cambiato qualcosa?»

«No.» sì, invece. Avrei represso meglio i miei istinti omicida, che già con mio padre faccio una notevole fatica, aggiungere altra carne al fuoco ed alimentarlo non mi sembra propriamente una mossa saggia.

«Ecco. I miei sospetti erano fondati?»

Appoggio i gomiti ai braccioli della poltrona, sollevo la gamba destra e posiziono la caviglia sopra il ginocchio sinistro, intreccio le mani sul davanti, sopra lo stomaco ma senza toccarlo.

Behind your neverDove le storie prendono vita. Scoprilo ora