Chapter 13.

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Eravamo davanti casa di mia zia Elena, ero in tensione, cosa alquanto strana, si trattava solo di conoscere mio cugino Luca, allora perché avevo così paura?
Forse era perché ero così sola e non entravo in contatto con dei miei coetanei da più di un mese.
"Amy, posso bussare?"
"Certo tesoro"
Ci aprì un Giulio festante, Eva gli corse in contro come se non si vedessero da millenni.
"Buonasera" mi girai e sorrisi.
"A te"
"Preferisci dolce o salato?"
"Dolce"
"Bene, andiamo." Guardai Eva.
"Tranquilla, mia madre gli darà un occhio."
"Va bene" mi porse la mano e uscimmo fuori.
Avevano un giardino enorme ma la cosa più bella era l'albero al centro. Era una quercia vecchia e maestosa, era sensazionale.
Si sedette appoggiando la schiena sul tronco e io mi misi accanto a lui.
"Allora, parlami di questa nuova vita a Verona."
Mentre agli altri dicevo sempre le stesse cose quali 'Verona è bellissima e sono contentissima di essere venuta qui' a lui dissi la verità.
Gli parlai della mia rabbia e frustrazione, quel tipo di frustrazione che ti uccide e ti divora. Gli raccontai della mia solitudine, di quanto il mio continuo stare sola mi portasse a desiderare ancora più solitudine perché nessuno in ogni caso avrebbe capito. Nessuno avrebbe capito cosa si prova a rinunciare alla propria vita, ai propri progetti e alle proprie certezze. Stavo già piangendo a quel punto ma non mi importava. Gli raccontai che mi mancava Palermo, le mie vie, la mia scuola e i miei amici, quegli stessi amici che i primi giorni erano così presenti e che adesso erano scomparsi, non gliene facevo una colpa. La vita continua per tutti. Gli dissi che la mia di vita si era come fermata, che era tutto uguale, che il mio malessere non passava ma i mesi si, che passavo giorni interi tra incubi e dolori, cercando la verità sul fondo di troppi bicchieri. Che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a stare bene, perché non ce la facevo da sola, che ho la mente pericolosa di chi ha amato fin troppo gli altri e odiato fino allo sfinimento se stessa.
Lui aprì le sue gambe e mi fece posizionare tra queste, la mia schiena appoggiata sul suo petto, mi asciugò le lacrime.
"Adesso ti racconto una storia." Mi accorsi che mi piaceva quando Luca mi parlava, a prescindere da cosa mi voglia dire. Mi piace il semplice fatto che mi voglia dire delle cose.
"Questa storia parla di un ragazzo di 15 anni che fin da piccolo si è sempre sentito fuori posto, ma non li fuori fra la gente, ma qui" si guardò intorno "e qui dentro" si toccò il petto.
"Questo senso di disagio lo rende sempre più riservato e schivo sia con i suoi amici sia con i suoi familiari. Un ragazzo che si alzava ogni mattina chiedendosi perché non aveva i capelli neri del padre o gli occhi azzurri del fratello di appena un anno e della madre.
Un giorno quindi, decise di fare il test del DNA. Questa storia parla anche di una donna, la donna che lo accolse quella sera e non disse nulla quando quel ragazzo scaraventò tutto a terra anzi, si mise a ridere e gli disse 'che senso di déjà vu'. I giorni successivi furono sfiancanti per lui, ebbe la conferma di non appartenere a quella famiglia, di non conoscere i suoi veri genitori e di essere stato abbandonato. La donna prese tutte le sue paranoie e paure, tutti gli insulti, prese senza mai lamentarsi le notti in cui il ragazzo tornava ubriaco fradicio." Stava piangendo. "Con il tempo lui iniziò a perdonare i suoi genitori adottivi ma rimase sempre quel tipo un po schivo, sempre sulla difensiva. Solo con la donna riusciva a essere se stesso, si sentiva amato.
Lei morì dopo una lunga malattia e con lei morii un un po anche io, perché quella testa di cazzo che tornava fatto a casa e la riempiva di insulti ero io. Ma ho amato Mia come se fosse stata mia madre e adesso che non c'è io sono perso. Nessuno può capirti meglio di me Amy, non sarai più sola."
Mi girai e lo guardai.
"Non posso impedirti di inciampare. Posso medicare il tuo piede ferito. E prenderti in braccio fino a quando sarai in grado di camminare sulle tue gambe." Gli citai una delle frasi del mio libro preferito. "Ma devi permettermelo Luca"
Gli diedi un bacio sulla fronte e andai via. Volevo leggere il diario di Mia, avevo un disperato bisogno di sapere cosa succede.

Forse questa è una delle lettere più difficili che io ti abbia mai scritto fino ad adesso, perché ci sono ricordi che inconsciamente seppelliamo sotto metri di polvere inossidabile sia per proteggerli dalla brusca e arrogante quotidianità sia per proteggere i nostri umori altalenanti e i nostri sorrisi fragili e sempre un po finti. Per molti anni mi sono vietata di ricordare ma non mi sono mai azzardata a dimenticare; quella era tutt'altra cosa. Riaffioravano spesso; guardando una fotografia, mangiando un dolce, ascoltando una canzone, percorrendo una vecchia strada, indossando una vecchia maglietta.
Perché, vedi, con il passare del tempo lo capirai. Ciò che dura, dura; ciò che non lo fa, non lo fa. Il tempo risolve la maggior parte delle cose. E quello che il tempo non può risolvere lo si deve risolvere da soli. Credo che i ricordi facciano parte delle cose che non si possono risolvere, si deve convivere con loro, si deve imparare ad accettarlo e a farsi dilaniare e stravolgere le giornate qualche volta perché succede che a volte te ne stai lì, sicuro di essere andato, avanti. Di averla superata, qualcosa. Fino a quando non ti scricchiola in testa di nuovo, così. Perché certi ricordi, di lasciarti andare per sempre, non ne vogliono sapere. Perché certe cose quando decidono di accadere, lo fanno per restarti dentro. Si fa prima a scordarsi di poterle scordare che perdere tempo a provarci, davvero.
Mi viene difficile trovare le parole adatte per descrivere il rapporto tra me e Mason.
Mi viene difficile raccontarti quei pomeriggi pieni di gelato al limone, quei film mai finiti di vedere e quelle fotografie così spontanee. Mi viene difficile ricordare il pomeriggio in cui mi regalò un pianoforte, un Yamaha, costava un sacco di soldi. Era stato un folle. "Suonami di te" e io, gli suonai il Preludio in Do maggiore di Bach.
Mi viene difficile raccontarti di quei pomeriggi in cui ritardava sempre e io mi arrabbiavo così tanto che per il primo quarto d'ora almeno facevo la gelida, non gli spiegai mai che avevo una paura folle di aspettare a vuoto, anche se lui, alla fine, arrivava sempre.
Mi viene difficile ricordare tutte le telefonate interminabili per raccontarsi tutti i particolari di una giornata stranamente movimentata o semplicemente per sentire le nostre voci come a voler dire 'ei, qualunque cosa sia successa, io sono qui'. Mi viene difficile passare nei posti in cui stavamo e non fermarmi a guardare e quando rimango lì a fissare quelle panchine e quegli scaloni spesso mi sembra di vederci ridere.
Il rapporto con Mason mi portava a mettermi in gioco, continuamente. A sconvolgermi, chiedermi quali fossero i miei limiti, cosa avrei rischiato per essere felice, quali fossero davvero i miei sogni e chi fossi io per davvero, a domandarmi il perché di certi sbagli, il perché di certe abitudini.
La cosa più bella e frustrante tra noi erano i litigi, discussioni piene e straripanti di parole, orgoglio, prese di posizione che ci costringevano a pensare e entrare nell'ottica dell'altro sempre. Urla, porte in faccia, mandarsi a quel paese, offendersi, usare parole sapendo l'impatto devastante che avrebbero avuto sull'altro. Discussioni che laceravano, ferivano, spesso logoravano la nostra personalità ma in qualche modo ci rendevano più uniti, più consapevoli di noi stessi e dell'altro.
I libri scambiati, le discussioni politiche, i battibecchi continui erano regolari ma magnifici.
Per non parlare di quelle sere dove i muri crollavano, i pilastri si frantumavano, i castelli di sabbia si sbriciolavano e rimanevamo noi inermi, fragili, a parlare delle nostre ferite più grandi, dei nostri rimpianti e delle nostre aspettative.
Delle lacrime asciugate, dei pianti liberatori e degli abbracci che ti tenevano in piedi, perché cadere in due è sempre più semplice.
Quelli sono i momenti che non dimenticherò mai.
Non siamo mai stati qualcosa di definito. Non eravamo amici, ne migliori amici, ne compagni, ne grandi amici, ne alleati. Non eravamo niente ma eravamo tutto.
Eravamo amici quando ci serviva compagnia e qualcuno con cui ridere.
Eravamo migliori amici quando avevamo bisogno di aiuto e abbracci spezzafiato.
Eravamo compagni quando ci serviva soltanto qualcuno che ci consigliasse qualcosa.
Eravamo grandi amici quando ci serviva un po di amicizia, qualcuno con cui parlare del più e del meno.
Eravamo alleati, quando tutto il mondo ci era contro e l'unica cosa che ci dava un po di speranza eravamo proprio noi. Eravamo tutti. Eravamo niente. Eravamo noi.

Con affetto,Mia

Love, MiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora