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Capitolo 13

"Devi Tornare in tribunale." Mi disse Jason in un apparente pomeriggio monotono.

Deglutii a fatica.

"Zoey, andrà bene." Mi rassicurò, posandomi una mano sulla spalla.

"Non sono pronta a rivederlo Jason." Ammisi.

Mi prese il viso fra le mani. "Io sarò lì tutto il tempo. Non mi muoverò dalle tue spalle."



La notte prima non dormii. Avevo la mente piena di pensieri che non la smettevano di tormentarmi. Sentivo l'agitazione divorarmi da dentro, svuotarmi sempre di più.

Mi guardai allo specchio. Ero terrificante.

Ero pallida come un lenzuolo e avevo due profondissime occhiaie violacee.

"Prendi un grosso respiro." Mi suggerì Clarissa.

"Ricordati chi sei." Disse.

"Non ci riesco" sussurrai.

"Si che ci riesci." Ribatté testarda. "Voglio che la ritrovi e che gli faccia vedere con che razza di stronza si è messo contro."

Annuii debolmente.



Mentre ero in viaggio verso il tribunale sentivo il cuore minacciare di uscire dal mio corpo e schiantarsi a terra.

Mi tremavano le gambe, non sapevo neanche se sarei stata capace di reggermi in piedi. Le mani erano congelate, non le sentivo più.

il mio avvocato mi stette a fianco. "Beva un sorso d'acqua." Disse, porgendomi un bicchiere di plastica che non sapevo neanche da dove l'avesse preso. Ogni tanto mi lanciava qualche occhiata, come se avesse paura che svenissi da un momento un all'altro.

"Si fidi di me, è il mio lavoro."

"Lo conosco, è un manipolatore." Mormorai.

"E io conosco quelli come lui. Ho a che fare con persone di questo genere da vent'anni. So già le loro risposte, i loro passi, prima ancora che li facciano."

Lo vidi camminare davanti a me e lanciarmi il suo sguardo gelido, privo di umanità.

Un brivido percorse tutto il mio corpo.

Era lo stesso sguardo che mi aveva riservato quel giorno, mentre lo supplicavo di lasciarmi andare.

Poi vidi anche Jason e la poliziotta che avevo visto al bar.

Arrivò presto il momento di entrare in aula.

Quella mattina assistetti ad una scena raccapricciante. Assistetti ad un uomo che usò ogni strategia per umiliarmi, per ferirmi nel profondo. Usò contro di me le mie debolezze che gli avevo ingenuamente confidato. Un uomo a cui avevo presentato la mia famiglia, con cui aveva trascorso parte della mia adolescenza, di cui mi ero fidata.

Sfrecciò un colpo dopo l'altro con estrema abilità e meschinità.

Disse che ero una persona violenta, che così come avevo distrutto la sua macchina, avrei potuto avventarmi su di lui. Che avevo avuto altri atteggiamenti simili negli anni in cui avevamo vissuto insieme e che non mi aveva parlato del suo tradimento per paura.

Disse che avevo ereditato quel lato violento da mio padre, che scontava ancora i suoi anni in prigione.

Disse che gli avevo permesso di prendere i miei soldi e che mi sarei inventata il furto per metterlo in cattiva luce.

Disse che tutte le volte che l'avevo trovato fuori dal mio bar, si era trovato lì per caso, perché abitava vicino e che non mi avrebbe assolutamente minacciata più volte.

Colpo di fulmine Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora