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Solo chi rischia di andare troppo lontano avrà la possibilità di scoprire quanto lontano si può andare.






Rientrata nella casa dei Signori Diamond notai che l'unica differenza rispetto alla mattina era l'enorme tavola apparecchiata accanto al salone con sopra diversi tipi di antipasto a base di carne che sembravano essere molto più che succulenti. Lizzy mi suggerì di aspettare la famiglia prima di sedermi a tavola per 'buona educazione' e così feci, anche se ogni volta che lanciavo uno sguardo a quel ben di Dio, il mio stomaco brontolava. Evidentemente, per quanto buono fosse stato, l'hot dog non mi aveva saziata a dovere. 

Aspettai in sala da pranzo per circa una decina di minuti abbondante senza che nessuno si presentasse così, per trovare una distrazione più appagante del contare le lampadine del maestoso lampadario che illuminava la stanza, mi decisi a cambiare location.
Con passi da felino mi spostai nell'elegante salone decisa a dare un'occhiata in giro, incuriosita nell'osservare le tante foto incorniciate sopra i mobili che avevo intravisto qualche ora prima.
Mi arrestai quasi subito quando i miei occhi catturarono l'immagine di un ragazzo disteso sul divano.

Seppur l'apparente ma distaccata somiglianza tra i due, mi ricordò a primo impacco Alec.
Il corpo longilineo e muscoloso rilassato occupava l'intero sofà, le gambe accavallate e i piedi su cui ancora teneva un paio di Dottor Martens scure appoggiati sulla fodera d'un cuscino.
Mi soffermai sulla sua figura incantatrice. 

La sua pelle leggermente abbronzata era priva d'imperfezione e metteva in risalto gli occhi d'un verde talmente intenso da far sorgere il dubbio se portasse delle lenti a contatto. I suoi lineamenti erano delicati e definiti, come se qualcuno l'avesse prima disegnato pensando come poter creare un essere umano tanto affascinante, e poi l'avesse reso reale e tangibile. Il naso era dritto, perfetto, con una debole curvatura all'insù invidiabile, gli zigomi pronunciati che gli donavano un'aria aristocratica, la perfezione di un Dio.
E poi c'erano le labbra piene, scolpite sul mento affilato e i capelli scuri, le ciocche gli ricadevano sul viso, scompigliate e leggere, mosse da un vento invisibile.

Il mio sguardo scivolò sulle sue mani vigorose, con le vene e i muscoli aggrovigliati a fior di pelle che stringevano la logora copertina di Il Mercante di Venezia, opera di William Shakespeare;
mi soffermai sull'immagine coperta per metà dalle sue dita affusolate, quella del paesaggio lontano della laguna italiana dipinto dai molteplici colori caldi del sole in tramonto.

Ricordai di aver letto quel libro ormai un paio d'anni prima, dopo una lunga lotta interiore sul comprare o meno un'opera del genere domandandomi se fossi in grado di leggerla o se mi sarebbe piaciuta. Fu la scelta migliore che potessi fare. Entrare nel mondo Shakespeariano era stato per me come una rinascita della mia mente e della mia cultura.

Coinvolta da quel piacevole ricordo mi trovai a sussurrare una tra le mie frasi preferite dell'autore, estrapolata proprio da quell'opera, meravigliandomi di come ancora la ricordassi bene:
«Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita».

Mi mentì amaramente di essermi concessa quella piccola libertà. Il volto del ragazzo si girò immediatamente nella mia direzione. Forse la mia gola si era chiusa immediatamente ed ero volata direttamente in Paradiso, perché occhi tanto profondi, di quel verde luminoso, non potevano essere reali. 

THE BLACK DIAMONDDove le storie prendono vita. Scoprilo ora