A casa di Luisa c'era la solita allegra confusione: l'oleandro in giardino sembrava un melo da cui pendessero frutti rossi. Luisa e Alberto correvano intorno all'albero illuminato, inseguiti da Buck che saltava e faceva il matto.
«Vieni, Bianca! Avanti, c'è posto! Il circo è al completo ora» disse Carla.
Il cielo era sgombro ed era ancora giorno, ma la luce aveva già i toni rosati dei pomeriggi d'inverno e l'aria faceva diventare rossi i nasi e le mani e formava gocce di brina nelle sciarpe, bagnate dai fiati caldi.
Quando entrarono dentro per la merenda i bambini avevano le mani sporche di terra. Alberto era caduto e si era fatto un buco nel ginocchio destro dei pantaloni della tuta.
«Non ti preoccupare, dopo ti accompagna Luigi se è buio! Lo sanno che sei qui, no?», disse Carla a Bianca, mentre disinfettava il ginocchio di Alberto e gli dava un paio di pantaloni puliti.
«Guarda, la mamma verrebbe volentieri a prendermi, ma ha sempre un sacco di cose da fare, quando torna. Non ha proprio il tempo. Però mi ha detto di salutarvi» rispose Bianca.
Sentì una fitta alla bocca dello stomaco: le succedeva quando diceva una bugia.
«Quando torno a casa sono stanca, non ho tempo per queste cose», le aveva risposto sua madre quando Bianca le aveva chiesto di accompagnarla. Lei aveva insistito un po'. Voleva a tutti i costi farle vedere il cane. Forse Carla l'avrebbe convinta a prendere un cucciolo, era così sorridente che a Bianca sembrava impossibile che qualcuno le dicesse di no.
«Tanto basta che qualcuno stia sulla porta mentre vieni, no? Sono pochi metri!», aveva aggiunto sua madre. Non aveva risposto. Con il viso serio, aveva cambiato stanza.
«Capisco, tuo padre è un dottore, tua madre lavora anche lei, di tempo ne hanno poco» le rispose Carla con un sorriso spento.
I genitori di Luisa e quelli di Bianca non erano amici. Si salutavano incontrandosi per strada, niente di più. E poi loro erano più giovani dei suoi, pensava Bianca. Avevano sempre voglia di scherzare e di giocare con i bambini. Carla portava spesso i pantaloni quando era a casa. La sua mamma tornava vestita da ufficio: aveva la gonna e portava le scarpe décolleté. Non portava pantaloni, diceva che erano roba da maschi. Aveva sempre paura di rompersi le calze.
«Ma che cose carine avete fatto per Natale! E come eravate belli stamattina!», riprese Carla mentre preparava la spremuta per merenda.
Bianca vide la cornicetta di Luisa, quella con la foto di classe. Anche la sua era rifinita di rosso, ma molto precisa. Carla l'aveva messa su un mobile del tinello, sopra un centrino fatto a mano da sua madre, appoggiata a un albero finto di cartone fatto all'asilo da Alberto. Sembrava proprio un portafoto vero, così.
«Poi la attacchiamo, intanto sta bene lì, in mezzo alle cose di Natale», aggiunse facendo una carezza a sua figlia.
Quella mattina a scuola, alle prime note uscite dal mangiadischi, mentre avevano cominciato a cantare, la sacra famiglia era entrata in processione: Bianca non riusciva a staccare gli occhi da Luisa col suo panciotto di carta crespa, fermato in vita con una cintura prestata da sua madre. Era nel corteggio dei pastori. Aveva continuato a cantare finché una vampata di rabbia le aveva strozzato la voce nella gola. Non era giusto, la voleva anche lei una cintura di Anna o Agnese invece del solito grembiule bianco col fiocco rosa.
Bianca faceva parte del coro, la maestra aveva scelto i bambini e le bambine più intonati. Niente costumi per il coro. Lei avrebbe voluto muoversi sul palcoscenico, come Priscilla quando danza. Poteva essere una pastorella, con la gonna di carta crespa che faceva la ruota come quella di Luisa.
A vedere la recita c'era Anna. La mamma e il babbo non avevano potuto mancare a lavoro.
«Dai, vengo io, è lo stesso no?» le aveva detto Anna il pomeriggio prima, quando lei aveva chiesto alla mamma il grembiule pulito e il fiocco stirato e la mamma le aveva detto che non poteva prenderla una mattina libera.
«Ma dai, che vuoi che sia! Basta che ci sia qualcuno della famiglia, no?»
Si era girata a braccia conserte, poi se ne era andata su da Giuly.
In prima fila, quella mattina, aveva riconosciuto subito Carla con Alberto che non voleva stare seduto e girellava avanti e indietro. Lei sorrideva e intanto con un braccio gli teneva la mano per non farlo scappare.
Aveva guardato tra il pubblico per individuare sua sorella. Non l'aveva trovata. Si era sentita come vuota, come se il corpo si sgonfiasse.
A casa aveva trovato la tavola apparecchiata: nell'ingresso si sentiva il profumo della salsa di pomodoro. Lo stomaco chiuso, aveva appoggiato la cornice sul mobile di salotto. Si era diretta verso la cucina, dove sua madre stava mettendo la pasta nella zuppiera e non l'aveva sentita entrare. Avrebbe parlato, sua madre avrebbe dovuto ascoltarla.
Aveva le gambe molli e le orecchie le bruciavano. Aveva cercato di inghiottire, ma non aveva saliva. Si era concentrata sul sorriso di Carla, laggiù oltre il vetro della porta di cucina, verso il luccichio del ramo di pino illuminato dal sole.
«Certo che Luisa ce l'aveva la sua mamma a vederla, e poi...» aveva ascoltato le parole uscire deboli e fermarsi a pochi centimetri da lei. La mamma non aveva neppure girato la testa, tutta concentrata nel grattare il formaggio nella zuppiera. A suo padre la pasta piaceva con tantissimo formaggio grattugiato.
Un lieve cigolio della porta: Anna e Agnese erano alle sue spalle e la fissavano, con l'espressione compiaciuta di chi ha colto a rubare in casa sua il vicino della porta accanto di cui tutti si fidano.
La faccia in fiamme, aveva fatto dietrofront ed era uscita dalla stanza.
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SCALE
General FictionSiamo negli anni '60, in un quartiere di periferia di una cittadina di provincia destinato, in futuro, a diventare residenziale. In una strada che termina in un campo dove ancora non si è costruito, a due passi dalla scuola elementare del quartiere...