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niente arcobaleni, solo righe bianche
(There's no rainbows, just white lines)

Questo capitolo contiene flashback del passato di Jisung

Jisung non sapeva cosa intendesse Changbin quando gli aveva detto di dover uscire dalla città per un paio di giorni per procurarsi qualcosa che in Corea non avrebbero neppure dovuto poter comprare. A dire il vero, sapeva pochissimo su Changbin in generale.

Lavorava con lui, come anche con quell'altro ragazzo di nome Chan, ma Jisung non aveva alcuna intenzione di diventare niente di più di semplici "colleghi". Aveva paura che un giorno lo avrebbero tradito, che avrebbero usato le sue emozioni per manipolarlo e lasciarlo nelle strade, senza uno spicciolo in tasca, magari denunciandolo alla polizia.

Però quando quella sera Jisung entrò in quel seminterrato nascosto e poco illuminato, quando diventò parte del gruppo di uomini seduti sui divani rovinati intorno ad un tavolo occupato da ciò che Changbin era riuscito a compare in un qualche modo, capì che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro, per essere paranoico sul futuro e pentirsi sul passato.

C'era una parte di lui che fortunatamente era stata in grado di fermarlo giusto in tempo, solo per il terrore di finire in galera e non essere in grado di vivere più una vita. Di pasticche di molly non ne aveva mai prese tante, nonostante la vista di quei due vicino a lui lo tentasse di molto. Forse era solo grazie a lui che erano riusciti a lasciar stare quel gruppo di tossici, dimenticare almeno in parte gli effetti della droga sul loro cervello e credere di poter vivere senza.

Ma quella volta non pensava sarebbe mai stato in grado di uscirne. Non da solo.

La stanza era bollente, o forse era solo una sua impressione. Le voci delle persone intorno a lui erano attutite, lontane, lo facevano girare in vortici che non finivano mai.

Si alzò dal suo posto, barcollando verso l'entrata del bagno nascosta dall'oscurità, ma una mano lo afferrò prima che potesse farlo. Qualcuno lo fece sbattere contro una parete, un paio di occhi assassini si puntarono su di lui. No, non c'era ombra di dubbio. Quella persona voleva ucciderlo.

–Bang Chan.– mormorò.

Jisung aggrottò le sopracciglia, tentando di restare concentrato nonostante la droga nelle sue vene lo rendesse difficile. Forse era stata la cocaina a rendere quella persona così aggressiva. Forse era solo perché la sua compagnia era costituita dal peggio trovabile in Corea. –Non sono Bang Chan.

–Lavori per lui.– continuò l'uomo davanti a lui, le sue mani ora premute sulle spalle di Jisung.

Prese un respiro profondo, soffocandosi sul fumo della stanza e spingendo via da sé la persona che lo aveva attaccato. –Non lavoro per lui.– sputò, la sua stessa espressione che rifletteva ora quella della persona vicino a lui.

La porta d'ingresso del seminterrato si aprì di scatto, una figura si avvicinò di corsa a Jisung e lo afferrò per il braccio. –Dobbiamo andare.– disse Changbin, pressante. Il ragazzo notò l'uomo a un metro o qualcosa di più da Jisung, spalancando i suoi occhi.

–È tutta colpa vostra, bastardi!– lo accuso l'uomo.

–Andiamo, dobbiamo andare.– ripeté Changbin. –Sali in spalla.– consigliò poi, attendendo con pazienza che Jisung lo facesse e lasciandosi alle spalle una volta per tutte quel posto. Salì le scale con l'ultimo po' delle sue forze, fermandosi in cima per far scendere Jisung e farlo salire sul furgone che avrebbero tenuto per anni.

–Dove stiamo andando?– chiese Jisung, ricadendo contro lo schienale del sedile e chiudendo gli occhi.

–Via. In un posto in cui possiamo stare al sicuro.– rispose Chan, guidando con attenzione attraverso vie notturne come sempre affollate, svoltando quando necessario, immettendosi sulla strada per imboccare l'autostrada.

grafite e diamanti | minsungDove le storie prendono vita. Scoprilo ora