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L'ambasciatore V'trvha tremava, sudando abbondantemente dentro l'imbracatura della tuta spaziale in cui si trovava infagottato. Il respiratore trasmetteva impietoso il suo respiro accelerato, che echeggiava a tutto volume nella sala, mentre lui veniva condotto dall'Imperatore. La pressione e la temperatura venivano ricalibrate ogni microsecondo da un congegno posto all'altezza del collo che ticchettava rapido quanto il suo respiro. Due manicotti protettivi lasciavano appena un po' di spazio per i tentacoli principali. Aveva dovuto fasciare le chele con uno stretto bendaggio, erano troppo fragili per resistere a quel peso. Le ali, che aderivano schiacciate al corpo sotto la tuta, erano diventate ormai completamente insensibili.

La sala delle udienze del Palazzo Imperiale era grande quanto una cittadella e infinite volte più magnifica. Il suo scopo era quello di destare soggezione in chi vi entrava e ci riusciva egregiamente.

La tuta spaziale lo appesantiva gravando sulla sua ossatura fine, facendolo sembrare goffo dinnanzi alla corte, ciononostante attraversò con cupa decisione la distanza che lo separava dal tiranno che stava sterminando il suo popolo.

Il trono era imponente, cesellato in materiali d'inestimabile valore, decorato con arte finissima e simboli di potere, ma veniva oscurato dallo splendore della figura che vi stava seduta.

L'Imperatore era un uomo di rara bellezza. Tutto in lui sembrava perfetto, come fosse stato creato da una materia purissima e riprodotto dai più grandi geni scultorei. Alcuni popoli lo veneravano come un dio, altri erano "convinti" che lui fosse Dio. V'trvha pensava che se l'Imperatore era divino, allora era un Dio malvagio e senza pietà, e andava fermato.

Il ciambellano di corte gli fece segno di parlare indicando la posizione esatta in cui fermarsi.

L'ambasciatore esitò un istante sotto quegli intensi occhi verdi che lo fissavano. Poi prese coraggio e disse a voce chiara e forte: «Mi presento alla Sua eccellentissima corte, Imperatore Kirhestebhan, per portare alla Sua attenzione la voce del mio popolo. Ho viaggiato su un'astronave progettata dai nostri più illustri scienziati per ventotto lunghi anni al solo scopo di poterla incontrare di persona. A questa missione ho dedicato tutta la mia vita.»

Si fermò un istante. L'attenzione di tutti era rivolta su di lui, il volto dell'Imperatore era indecifrabile nella sua freddezza.

V'trvha si schiarì la gola e proseguì: «Il mio popolo ha sempre vissuto in pace, fino a quando non ha conosciuto voi Hanar. La vostra specie è così incredibilmente progredita, così superiore alla nostra, che inizialmente ci siamo sentiti fortunati ad avervi incontrati, pensavamo ci avreste aiutati a migliorare le nostre condizioni di vita. È stato un grave errore di valutazione.

I vostri esploratori ci hanno cacciati dai sistemi planetari che abitavamo da migliaia di anni, senza alcun rispetto per la nostra civiltà e la nostra cultura, facendoci oggetto di un'opera di sterminio sistematico.

Ora, io vi chiedo, in nome del sovrano che mi ha inviato, di accettare il tesoro che ho portato con me e considerarlo un adeguato compenso per abbandonare ogni altro sopruso sulla mia gente. Promettiamo di inviare a scadenze prefissate una somma analoga per tutto il tempo che Sua maestà lo riterrà necessario.»

Ci fu un mormorio incuriosito tra le file della corte. L'Imperatore si piegò verso il ciambellano, il quale gli porse un documento che attestava la ricchezza favolosa che gli veniva offerta. L'uomo sollevò le sopracciglia e si voltò verso l'ambasciatore.

Si alzò in piedi e, destando un coro concitato di stupore tra gli astanti, scese gli scalini che lo distanziavano dall'ambasciatore fermandosi di fronte a lui. Gli sorrise, inclinando lievemente il capo, e prese a camminargli intorno lentamente, guardandolo con vivo interesse, quasi fosse stato un insetto in una teca di vetro.

«Quando ho saputo dell'arrivo dell'astronave, ieri,» gli disse con una voce squisitamente calibrata da tenore, «ho fatto una piccola visita al vostro sovrano.»

«A...avete...siete stato su Bartiehd, nella Reggia Dorata?» balbettò V'trvha.

Kirh sorrise dolcemente. «Ma certo! Ovviamente non ho potuto trattenermi per molto, ma ho avuto un interessante scambio di vedute con il tuo re, durante il quale abbiamo convenuto che la generosa offerta dovrà essere convertita in qualcosa di più sostanziale.»

«Come... ma...»

L'Imperatore si chinò su di lui agguantandolo per il congegno che regolava i parametri vitali della sua tuta, lo sollevò di peso di parecchi centimetri, come fosse stato una piuma.

«Mi hanno detto che la vostra carne ha un sapore afrodisiaco se cucinata lentamente e con le spezie giuste,» sussurrò dentro al microfono che traduceva la sua voce. «Sarei curioso di provare subito se è vero, ma sarebbe una mancanza di rispetto esecrabile affrettare i tempi, considerando la vostra "civiltà" e "cultura". Dovrò rassegnarmi ad aspettare il prossimo tributo che mi offrirete, in carne e ossa, questa volta.»

La mano che brandiva la tuta lo lasciò bruscamente facendolo inciampare e cadere all'indietro. Paralizzato dal terrore, V'trvha osservò intontito come in sogno l'Imperatore che risaliva elegantemente gli scalini del trono e un servo che gli porgeva un panno per pulirsi le mani. Lo vide voltarsi un'ultima volta a fissarlo, e sentì nella sua mente quella voce armoniosa, che comandava su milioni di popoli, dire: "Non sei altro che carne da macello. Rifletti a questo, durante i prossimi trent'anni nel tuo viaggio di ritorno."

V'trvha venne portato via di peso da alcuni funzionari della sicurezza. Jared Ilory osservò gli occhi dell'alieno guizzare sui volti dei presenti nel disperato tentativo di trovare un piccolo insignificante moto di compassione.

Non ne ebbe alcuno.

Nemmeno da lui, che sostava da più di quattro ore a fianco del trono, in attesa di essere convocato. Nessuno poteva contrastare un hanar di quel livello, e in ogni caso, a nessuno importava la sorte di un popolo alieno dall'aspetto ripugnante che supplicava di sopravvivere.

La stessa situazione si era ripetuta infinite volte con ogni specie che avevano incontrato. Se era intelligente, veniva asservita ai loro scopi, se era primitiva, veniva utilizzata come cibo, per i lavori forzati, oppure semplicemente sterminata per liberare un pianeta al fine di ospitare nuove città. La superiorità degli hanar sugli altri esseri viventi era tale che nessuno si poteva opporre.

Jared tuttavia conosceva un'altra verità. C'era stato un tempo in cui gli hanar avevano condiviso la loro Conoscenza con le altre creature, convivendo pacificamente in mondi dove il diritto alla vita e all'uguaglianza erano leggi sacrosante, che nessuno si sarebbe sognato di mettere in discussione. Una mitica Età dell'Oro di cui lui aveva sentito parlare in un antico racconto tramandato nella sua famiglia.

L'enorme vastità dell'Impero che gli hanar abitavano, come fosse un giardino delle delizie fatto a loro uso e consumo, le possibilità illimitate di cui disponevano, rifletté Jared, avevano letteralmente divorato il loro spazio morale. Asserviti a se stessi, limitati dal proprio egoismo, stavano perdendo la ricchezza dello scambio con "l'altro", il "diverso da sé". Imprigionati in una ricerca incessante di potere, erano diventati Dei, senza divinità.

Qualcuno al suo fianco gli strattonò il braccio, distogliendolo da quelle riflessioni, si voltò e vide gli occhi dell'Imperatore puntati su di lui. Evidentemente il suo colloquio privato stava per cominciare. 

La scelta dei Sarvanni (Ciclo di Hanar vol.4)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora