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Fortunatamente per Damasa l'ecosistema di Speranta era più ospitale del loro pianetino, anche se la luce del giorno risultava troppo intensa per i suoi occhi, ma le brevi lezioni che le aveva impartito la compianta Tarsha l'avevano resa in grado di adattare entro certi limiti il suo organismo all'ambiente. Saskia invece era a suo agio in qualsiasi condizione grazie al potere della Terra presente dentro di lei, si era quindi integrata perfettamente al pianeta e insieme ad Hiram trovava molto piacevole camminare sotto la luce del sistema binario che illuminava quel mondo antico, tutto il loro essere ne sembrava rinfrancato.

Hiram si sentiva sollevato di non dover calibrare continuamente il suo organismo al pianeta e la sua mente stanca riusciva finalmente a riposare. Sentiva di trovarsi a casa.

Speranta era il pianeta d'origine degli hanar, la terra dalle doppie ombre. Due stelle, una gigante blu e una nana gialla, giocavano in una danza vertiginosa l'una con l'altra, sospese in un equilibrio perfetto. La gigante era avvolta da una nebulosa che ne placava l'emissione radioattiva permettendo alla vita di germogliare sul pianeta.

La luce, durante il giorno, era così intensa che solo gli occhi degli hanar potevano tollerarla senza danni. Di notte, invece, il cielo era illuminato da una grande luna che, nell'unico istante in cui si eclissava, poco prima dell'alba, dava modo alle stelle di rendersi visibili. Su Speranta quindi l'oscurità durava solo pochi istanti.

Gli Insediamenti sul pianeta erano governati da una manciata di famiglie hanar che dominavano su un centinaio di migliaia di schiavi per lo più umanoidi.

L'arrivo di Hiram aveva destato molta curiosità fra la popolazione.

«L'ultima visita è avvenuta un migliaio d'anni fa,» gli aveva spiegato l'hanar che li aveva accolti nella sua residenza non appena aveva saputo del loro arrivo. «Un esploratore. È ripartito quasi subito e non ne abbiamo avuto più notizia.»

Passeggiando nel porticato della villa, invaso da fiori blu cobalto, Hiram aveva osservato: «Siete praticamente isolati, il pianeta è così lontano dai confini della Raggiera...»

«È un pianeta di scarso valore, non ha mai interessato nessuno. Ci troviamo fuori dalla giurisdizione dell'Impero e quindi liberi a tutti gli effetti. La condizione in cui un hanar dovrebbe sempre trovarsi. Ma voi che ci fate qui? Siete forse anche voi degli esploratori?»

Hiram aveva risposto che cercava semplicemente un luogo tranquillo in cui passare un periodo di solitudine e contemplazione. In base alle usanze hanar era una scusa plausibile, compresa la sua scelta di viaggiare in compagnia di una sola schiava. La bambina, aveva aggiunto, era figlia della donna, nonostante l'aberrazione degli occhi verdi la facesse sembrare una di loro. Aveva intenzione di addestrarla personalmente per avere un aiuto in più. L'hanar non aveva replicato, come voleva l'etichetta.

Dopo pochi giorni di permanenza su Speranta, Hiram era riuscito a ottenere un lotto di terreno dove vivere, una dimora più che dignitosa e aveva instaurato rapporti cordiali con i suoi vicini di casa.

Spesso si recava a penosi incontri conviviali, dove sperava di ricevere notizie su quanto stava accadendo nell'Impero e, naturalmente, dove sperava di contattare un Sarvanni. Ma di questi personaggi, ai limiti della leggenda, non sembrava ci fosse traccia sul pianeta.

I mesi si sbriciolarono in una quieta e monotona routine. Notando i progressi di Saskia, sempre più evidenti, Hiram avvertì, per la prima volta nella sua vita, la pressione del tempo e si sentì spingere verso un abisso di cupa disperazione. Nonostante la vita dissoluta condotta dagli hanar su Speranta, che li portava a eccessi sempre più rivolti allo stordimento dei sensi, temeva che presto o tardi qualcuno di loro, mosso da un'annoiata curiosità, avrebbe indagato più a fondo sulla mente della bambina, scoprendovi tracce di quel segreto che cercava ostinatamente di celare.

Accadde un anno più tardi, durante un incontro all'anfiteatro principale della Contea: apprese da un commento casuale che la Raggiera si era scissa in due fazioni e una guerra fratricida era infuriata tra gli hanar da galassia a galassia radendo al suolo tutto ciò con cui veniva in contatto.

Hiram si era dovuto sedere, stordito, per nascondere lo smarrimento che l'aveva colto nel sentire quelle terribili notizie. Il suo sguardo si era fissato sull'arena ricolma di creature carnivore, dove in quel momento venivano liberati gli schiavi. Seduti intorno a lui c'erano una trentina di suoi simili che applaudivano e gridavano deliziati, mentre osservavano la carneficina che stava avvenendo davanti ai loro occhi.

Uno schizzo di sangue raggiunse il viso di una donna che era al suo fianco e lei scoppiò a ridere, pulendosi con il dorso della mano. Occhi perfetti e freddi come quelli di una bambola, morbosamente fissi sui corpi che venivano sbranati.

Hiram si sentì mancare. Pensava a Damasa al sicuro dentro casa e a ciò che la sorte le avrebbe riservato se mai l'Imperatore fosse riuscito a trovarla. Pensava ai suoi simili, lì riuniti, che si divertivano a schiacciare e torturare creature diverse da loro solo perché ritenute inferiori. Senza porsi alcun problema morale. Senza chiedersi se quei corpi senza vita avessero avuto un nome.

Chinò il capo sollevando una mano a coprirsi il volto, disgustato. Per la prima volta, il suo rigido autocontrollo venne meno. La sua mente si ribellò e in un istante trascinò via il suo corpo. Lontano. Non importava dove.

Si ritrovò in una radura a qualche chilometro dall'arena, senza sapere come o quando aveva dato a se stesso il comando di arrivarci. Cominciò a camminare storditamente, senza meta, sperando che qualcosa nell'aria, nell'acqua o nella luce di quel pianeta potesse offrire sollievo all'angoscia che lo tormentava.

Fu in quel momento che si accorse che qualcuno lo stava seguendo. Si voltò.

A pochi passi da lui una donna dai lunghi capelli biondi e la pelle olivastra si fermò a fissarlo.

«Chi sei?», le chiese.

«Non riconosci ciò che stai cercando?» Gli occhi verdi scintillavano ridendo di lui.

Hiram ebbe un brivido quando la consapevolezza esplose nella sua mente. «Sei una Sarvanni...?»

Lei rimase in silenzio seguitando a scrutarlo in volto.

«Vi sto cercando da tanto tempo,» aggiunse lui, «ho lasciato segni e messaggi ovunque. Perché non vi siete fatti avanti prima?»

Lei indicò la pietra di ametista che Hiram portava al collo. «Il pendente,» disse con una voce armoniosa che sembrava provenire da un sogno, «non sapevo se l'avevi rubato o peggio sottratto con la forza. Tarsha non l'avrebbe mai dato a un estraneo spontaneamente. Dovevo essere certa della tua buona fede. Ho visto la tua reazione all'arena e ne ho avuto la conferma.»

«Tarsha è morta.»

La donna non ebbe la minima reazione. «Devi essere pronto a perdere qualcosa pur di fare la cosa giusta.»

Era la stessa frase che gli aveva detto Tarsha.

«Avreste potuto aiutarla. Aiutare suo marito,» l'accusò con amarezza ben sapendo, mentre lo diceva, che anche lui non aveva fatto nulla per salvarli.

Gli occhi della donna si infiammarono. «Non sarebbe servito a niente! Noi custodiamo qualcosa che è più importante di una singola esistenza. Tutti noi ne siamo consapevoli e disposti al sacrificio se necessario.»

«Beh, intendete aiutare me, adesso? O continuerete a non fare niente?»

«Seguimi,» fece lei dopo averlo misurato con lo sguardo da capo a piedi. «Ci sono cose che devono essere dette.»

Hiram non se lo fece ripetere due volte. 

La scelta dei Sarvanni (Ciclo di Hanar vol.4)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora