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Li vide arrivare. L'enorme cargo oscurò parte del cielo e atterrò rapido nell'aeroporto alla periferia della Capitale. Per un istante, Jared si ritrovò a correre sotto quell'ombra e gli parve di udire i lamenti angosciati degli schiavi, la nuova mandria che l'Imperatore aveva richiesto.

Fin da bambino aveva lottato a favore dei popoli che hanar come lui continuavano impunemente a seviziare e uccidere. In segreto, aveva addestrato le loro menti affinché capissero che niente li differenziava dai loro padroni, che il diritto alla vita e alla conoscenza era sacro per tutti. Ma questa volta non poteva fare niente per loro, e nemmeno per se stesso.

Era tornato a casa, trovandola deserta. Nel giardino privato, dove lui e sua moglie spesso si recavano a parlare, aveva trovato uno scialle, ripiegato e posato per terra. Era il segnale che qualcosa non andava. Peggio. Era il segnale che la situazione era irrimediabile.

Poco dopo, con il cuore in gola, si era recato al quartiere degli schiavi: le gallerie che avevano ospitato le scuole erano state sgomberate e ripulite. Ogni traccia di esse cancellata.

Non sapeva per quanto tempo era rimasto lì in piedi, le braccia abbandonate lungo i fianchi, incapace di pensare lucidamente. Fissò i locali vuoti dove pochi giorni prima aveva tenuto una lezione a un gruppo di ragazzini: gli avevano fatto così tante domande da stordirlo. Sorrise al pensiero. E il sorriso gli ricordò sua moglie.

Sapeva che Tarsha non era scappata. Non se ne sarebbe mai andata senza di lui e, comunque, non avrebbe compromesso gli altri membri della Casta contattandoli per ricevere aiuto. In questi casi, le regole erano molto chiare: ognuno doveva provvedere a se stesso.

Mentre correva verso il Palazzo Imperiale, tutta la sua vita si srotolò davanti a lui. La ricchezza delle culture che aveva incontrato durante i suoi viaggi, il profondo disprezzo degli hanar nei confronti di ciò che era diverso, una schiava bambina che, dopo i suoi insegnamenti, aveva imparato a vivere nell'atmosfera di azoto liquido del pianeta dove era stata deportata, la risata amara di un vecchio quando aveva compreso che per tutta la sua vita aveva pregato falsi Dei, la luce della libertà negli occhi di una donna che, sebbene in catene, era stata sfiorata dalla Conoscenza.

I ricordi evaporarono uno a uno, finché nella sua mente non rimase altro che un vasto silenzio. Con cupa determinazione varcò la soglia del palazzo e, come aveva immaginato, non trovò alcuna difficoltà a ottenere udienza dall'Imperatore.

«Tu conosci la Casta dei Sarvanni?»

Il grande sovrano della Raggera Galattica passeggiava con calma, le mani giunte dietro la schiena, guardando davanti a sé con aria palesemente soddisfatta.

Jared si trovava in piedi al centro di una grande sala circolare, percorsa da un reticolo di finestre aperte sul cielo nuvoloso di Alfhemir. Era bloccato da una densa nebbia che gli impediva ogni movimento.

L'Imperatore lo aveva informato in tono divertito che ciò che lo imprigionava erano le Essenze dell'Acqua, del Fuoco e del Vento e che lui ne aveva il controllo totale. Per dargli una dimostrazione, lo aveva colpito con la forza corrosiva dell'Acqua. Jared aveva resistito stoicamente, finché non aveva sentito la propria voce gridare e la sua mente si era persa in un abisso di sofferenza.

Alcuni minuti dopo, Kirh aveva mollato la presa e si era messo a parlare con lui. Serenamente. Come fossero stati amici di vecchia data.

«Dov'è mia moglie?» chiese lo storico, con il poco fiato che gli rimaneva in corpo.

L'Imperatore non diede segno di averlo sentito. «I Sarvanni sono una loggia segreta,» disse in tono discorsivo, «che possiede un potere sottratto e nascosto agli altri hanar. Un potere che si tramanda innato. I bambini Sarvanni non hanno bisogno dei Nidi. Non hanno bisogno di Conoscenza. Non sono ambiziosi. Non cercano di scalare i ranghi. Perché hanno già tutto il potere che gli serve. Eppure non lo usano.»

La scelta dei Sarvanni (Ciclo di Hanar vol.4)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora