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                                                                                                                               Cinque anni dopo.


Quando io e Aurora giocavamo con le bambole amavo, oltre il fatto di passare con lei del tempo e, non di certo per le storie demenziali in cui le coinvolgevamo- perché cosa poteva mai venirne fuori di buono dalla fantasia di una bimba di 5 anni e una che ne aveva 11 ma che comunque matura di più non lo era?!-, era quando le spogliavo. No, non ero una di quelle bimbe che, come ho scoperto qualche tempo dopo, lo facevano immaginando storie con scene a luci rosse manco avessero esperienze pregresse in materia già alla loro tenera età, ma per provare nuovi accostamenti e combinare nuove mode. Di fatti, avevamo più vestiti che manichini dal momento che chiedevo a mia madre, per conto di Aurora ovviamente, di gonfiare il guardaroba delle nostre bambole, che comunque le sarebbero costate meno di una bambola nuova. Ad ogni modo, un pomeriggio che giocavamo, scoprii il grande amore della mia vita. Davide, il mio fratellino di mezzo di 4 anni, aveva fatto irruzione nella cameretta che io e Aurora condividevamo impugnando un accendino che aveva sottratto a nostra madre in cucina, mentre lei non guardava. Correndo a tutta forza verso di me e puntando, una volta arrestatosi, la bambola che stringevo tra le mani con l'arma incendiaria le aveva appiccato fuoco. Il momento era stato un susseguirsi di urla di panico e saltelli convulsi per la cameretta, con una me che teneva stretta in pugno la povera creatura che cominciava ad emanare un tanfo di plastica bruciata e naftalina, mia sorella spaventata e in lacrime e Davide felice e urlante per le sue gesta da piromane acerbo: venimmo salvati in extremis dalla mamma, che allarmata dalle urla era corsa da noi. Aveva intercettato in un battibaleno la causa di tanto fragore e, circuendomi in un angolo vuoto della camera, mi aveva intimato di gettare l'inconsapevole vittima ancora in fiamme sul pavimento per calpestarla e spegnere quelle che, in realtà, non erano altro che piccole lingue di fuoco. Come premio per la sua brillante opera, Davide, e per lo spettacolo che ne era seguito venne gratificato con un sonoro scappellotto. Ciò che ne rimase della povera creatura, o comunque le fattezze che la facevano apparire una principessa incantevole, con la pelle ambrata e i lunghi capelli castani con riflessi biondo grano, furono una testa ormai calva e pelle maculata aggravata dalla presenza ineluttabile degli abiti che, con l'ausilio del fuoco, si erano fusi alla plastica deturpandola terribilmente. Fu per mascherare tale orrore che mi era venuta l'idea di realizzare un nuovo vestito per la bambola- anche se ne avevamo tanti, nessuno riusciva a coprire le brutture che quel corpicino aveva subito. Avevo trafugato un vecchio pezzo di stoffa grezza che mia madre conservava nel suo cesto da ricamo e di cui non sapeva che farsene, ma che conservava con la convinzione che magari un giorno gli avrebbe trovato un utilizzo propizio. Aveva ragione! Lo avevo sottratto alla sua tutela e, posizionandolo in varie angolazioni e posizioni, davanti ai miei occhi iniziarono ad apparire come un escalation di disegni di modelli in cui avrei potuto tagliuzzare e ricucire quel piccolo lembo di stoffa. Il risultato, per lo più, si avvicinava ad un sacchetto dell'immondizia che ricopriva la bambola dal collo fino alla punta dei piedi, abbellita da una cintura fucsia sgargiante sormontata da un fiore dalla forma talmente dubbia da essere impossibile riconoscerne la specie. Al tutto, avevo abbinato accessori riciclati, come scarpe e cappello verde vomito. Per quanto insulsa, avevo cominciato ad andare in giro esibendo la mia creazione; l'orgoglio che avevo provato per quella realizzazione sconfinava nel ridicolo, ma ne ero andata fiera e mostrata a chiunque mi capitasse sott'occhio, vantandomene addirittura con le mie compagne di classe, a scuola. Colpita dal mio entusiasmo, un giorno, nonna Anna, la mia omonima, munita del suo personale cesto da ricamo, contenente rotoli di lana e cotone per ogni colorazione dell'arcobaleno, aveva deciso di istruirmi nell'arte del punto a croce, il lavoro coi ferri e all'uncinetto. In poco tempo avevo imparato a padroneggiare le tecniche di ricamo: mi dilettavo col ricamare scene angeliche o floreali su asciugamani con inserti in tela aida o in lino, copricuscini, ma la cosa che prediligevo erano i disegni geometrici che potevo realizzare con l'uncinetto. Per un lungo periodo, quando casa venne invasa di miei centrini e non vi erano più posti dove stivarli, avevo cominciato a riempire casa delle nonne, anche se nonna Giovanna, dopo i primi tre, mi chiese di escluderla alle prossime donazioni, ché ne aveva già abbastanza. Nonna Anna invece non smise mai di sostenermi ed incitarmi in questo lavoro artistico in cui avevo trovato il mio estro, mi aveva spronata ad osare sempre cose nuove, accompagnandomi nell'esecuzione stessa dei lavori o cimentandosi in prima persona nel lavoro manuale, nonostante l'artrite le impedisse movimenti fluidi con le dita e la vista vacillasse. Aveva continuato ad accettare i miei doni che senza di lei non sarebbero mai esistiti. Un pomeriggio che mi ero ritrovata a casa sua a ricamare, la porta di casa venne scossa dal trillo del campanello, che annunciava una vicina della nonna. Celeste, quando mi vide in un angolo del salotto, con la nonna seduta di fianco a me intenta a guardare il mio operato mentre ascoltavamo una stazione che trasmetteva vecchie canzoni alla radio, mi aveva affiancata pregandomi di confezionarle nuovi centrini. Mi aveva confidato che le sue amiche, i parenti che andavano a farle visita a casa apprezzavano molto i suoi ultimi acquisti e di quante, alcune comari con cui se la intendeva, glieli invidiassero. Così la signora Celeste mi aveva fatto notare che se avessi allargato la produzione avrei potuto iniziare a raccogliere un bel gruzzoletto da mettere da parte per gli anni a venire, ché a suo dire, i soldi, non bastavano mai. Quanto aveva ragione! Il pomeriggio, dopo quella parentesi, trascorse relativamente mogio, con le chiacchiere della signora affettate e critiche quando si rivolgeva a questo o a quello e alle risposte monosillabiche della nonna che nulla avevano fatto per dissimulare la noia e la contrarietà che provava per tali argomentazioni. Quando finalmente eravamo tornate ad essere sole, non potendo fingere su quanto la signora Celeste avesse messo in luce un fatto a me oscuro e che mi riguardava in prima persona, la nonna mi aveva fatto segno di seguirla per condurmi nella sua camera da letto. Sul comò, sovrastato da un grosso specchio, con una cornice in legno lavorato e intagliato in tante rose, mi aveva mostrato un salvadanaio dalle fattezze di una fata.

Come ti vesto per San ValentinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora