Magia

196 20 10
                                    

Erano passati cinque giorni da quando Ivankov era venuto a farci visita e ci aveva iniettato i suoi ormoni, e i tre giorni successivi erano stati giorni di intensa sofferenza per me e per Law. Era vero, lui non era un normale essere umano e aveva tempi di ripresa più rapidi, ma aveva preso una bella botta e sospettavo che stavolta non se la sarebbe cavata tanto facilmente. Nella stessa misura in cui io avevo perso la mia voce, lui aveva perso la sua capacità di muovere gli arti, e non appena aveva smesso di sentire il dolore degli ormoni aveva provato a muovere braccia e gambe, senza risultati. Avevo evitato di infierire per non infastidirlo, ma speravo che potesse guarire e recuperare tutta la mobilità che aveva prima.
I restanti due giorni erano state giornate di calma piatta. Non ci eravamo scambiati molte parole, in parte perché eravamo un po' in imbarazzo, in parte perché eravamo stanchi. E poi, scrivere su quella maledetta lavagnetta mi faceva affaticare molto.

«Che noia...» mi lasciai sfuggire, persa nei miei pensieri.
Spalancai gli occhi e guardai il Capitano, esterrefatta. Poi iniziai a sorridere come un'ebete, decisamente sollevata. Non me ne ero accorta, ma mi era tornata la voce! Non avrei potuto essere più felice. Non vedevo l'ora di ritornare a parlare. Ero in estasi. Adesso finalmente potevo fare quello che progettavo di fare da tempo: tediare il Chirurgo della Morte continuando a cantare per tutto il giorno "È un mondo piccolo" e "Ho tante noci di cocco splendide". Non potendo muoversi – e di conseguenza non potendomi tappare la bocca con il lenzuolo o peggio, uccidermi – doveva sopportare quella che per lui sarebbe stata sicuramente una tortura.
Law mi osservò, in un modo diverso da come mi aveva guardato le altre volte. Quasi avrei potuto dire che mi stesse rivolgendo uno sguardo dolce. Mi sorrise, e da quel sorriso percepii che anche lui era contento che avessi ritrovato la voce. Ma lo era solo perché ancora non sapeva quali fossero le mie intenzioni diaboliche. Ghignai in modo ambiguo. Avevo imparato dal migliore.
Riportai lo sguardo dritto davanti a me e mi sfiorai la gola con le dita. Gli ormoni che mi aveva somministrato il Rivoluzionario avevano davvero fatto effetto. Quasi non ci credevo. Del resto, noi medici siamo sempre un po' scettici quando si tratta di cose "mistiche". Il polso sinistro e il fegato erano ancora messi male, ma l'aver riacquistato la capacità di emettere suoni bastava per rendermi felice. Dopotutto, il trans-formato faceva i miracoli fino a un certo punto. Era risaputo che quello della guarigione fosse un processo lento e doloroso: non si poteva pretendere troppo dal proprio corpo.
«Te l'avevo detto,» dissi rivolgendomi al chirurgo e stupendomi di me stessa ancora una volta. Non avevo intenzione di pronunciare quella frase. C'erano tante cose che avrei voluto dire al mio Capitano non appena avessi ripreso a parlare, e adesso che l'avevo fatto mi era scappata l'ultima cosa che pensavo avrei mai affermato. Evidentemente era stato un riflesso involontario, era il mio subconscio che mi spingeva ad iniziare quel discorso.
Il moro mi guardò storto.
«Te l'avevo detto. Ti avevo detto che il sogno che ho fatto tempo fa era reale. Ma non mi hai ascoltato,» sputai fuori tutto d'un fiato. La voce, fino a quel momento, mi era uscita un po' roca, come era normale che fosse.
Sentii Law sbuffare seccato.
«Se mi avessi ascoltato, se mi avessi dato retta, a quest'ora non saremmo...»
Fui interrotta dalla sua voce calma e piatta.
«Fare la vittima, lamentarti e accusare me di essere stato negligente non allevierà i tuoi sensi di colpa.»
Trasalii e boccheggiai per qualche secondo. Finii per abbassare la testa, senza sapere bene che dire. Aveva fatto centro con poche parole, come sempre.
«Come fai a sapere che mi sento in colpa?» gli domandai, rialzando il capo e fissandolo con un aria da cane bastonato.
«Tu ti senti sempre in colpa,» sentenziò senza aspettare nemmeno mezzo secondo.
Sospirai. Aveva ragione. E io avevo ragione quando sostenevo che il Chirurgo della Morte fosse la persona che meglio mi conosceva al mondo; che fosse quello da cui provenivo o quello in cui mi trovavo ora.

«Mi hai disubbidito,» tuonò all'improvviso dopo alcuni minuti di silenzio tombale, facendomi istantaneamente voltare verso di lui. Sembrava molto arrabbiato.
«Lo so. Perdonami.» Supponevo che quello fosse un argomento molto delicato da affrontare e che lo avesse preservato fino a quel momento proprio perché voleva discuterne a voce. Dopotutto, gli avevo fatto un affronto enorme. Non solo avevo bellamente ignorato i suoi ordini, ma mi ero anche finta la sua fidanzata. Per non parlare del fatto che gli avevo intimato di stare zitto in più occasioni e lo avevo chiamato con il nomignolo che tanto detestava. Forse avevo sbagliato, tuttavia lo avevo fatto a fin di bene e per una causa più che giusta. Almeno questo avrebbe dovuto riconoscermelo.
«Saresti potuta morire,» rincarò la dose dopo un po'. Evidentemente questo pensiero era diventato il suo chiodo fisso. La domanda era... con chi di noi due ce l'aveva di più?
«Eppure sono ancora qui, con te.» Cercai di assumere un tono dolce e rassicurante. Aveva bisogno di sentirmelo e sentirselo dire.
«Ti accorgerai molto presto delle conseguenze,» quasi mi minacciò, rimanendo freddo e calmo. Aggrottai la fronte, non sapendo che pensare. Dovevo avere paura? O dovevo ridere delle sue intimidazioni infondate? Non c'era motivo di spaventarsi, ora che il peggio era passato. E le uniche conseguenze che c'erano state erano l'accorciamento della mia vita e la permanenza in un letto d'ospedale. Ne avrei fatto a meno, ma per quello che avevo passato ero contenta di essere viva. Tuttavia ammettevo che il pensiero che ci potessero essere altre conseguenze mi metteva addosso un po' di inquietudine.
«Sono viva. È questo ciò che importa,» gli dissi convinta, tentando di scacciare quel pensiero.
«A quale prezzo?» mi domandò, sempre impassibile.
«La vita. La vita è un prezzo più che sufficiente,» replicai scettica e senza guardarlo, non capacitandomi di come facesse, proprio lui, a non capire le mie motivazioni. Non c'era bisogno che lo informassi sui miei obiettivi da raggiungere e su tutte le cose che avevo ancora da fare e per cui non potevo arrendermi, perché li conosceva benissimo. Mi aveva sentito ripetere tutto almeno mille volte in quei due anni.
«Non era la tua battaglia. Perché lo hai fatto?» Aspettava di chiedermelo da tanto, ne ero sicura.
«Perché sei il mio Capitano. È mio dovere proteggerti. E poi, te lo dovevo.» Evitai il suo sguardo inquisitorio e mi concentrai sul pollice che mi stavo mordicchiando.
«Perché. Lo. Hai. Fatto,» ripeté arrabbiato, scandendo bene le parole e alzando la voce. Non ci era cascato. Dovevo fare qualcosa, stavo diventando troppo prevedibile. Avevo perso il mio tocco magico. O forse eravamo stati a contatto l'uno con l'altra per così tanto tempo che ormai non avevamo segreti.
Esitai qualche istante prima di rispondere, dedicandomi al mio povero pollice, che stavo martoriando. Mi ci volle un'enorme forza di volontà per dichiarare quello che dissi e per non scoppiargli a piangere in faccia. Mi morsi un labbro e lo fissai. Le mie sopracciglia si incurvarono, facendo formare rughe d'angoscia sulla mia fronte. Presi un paio di respiri profondi, nel tentativo di mascherare la mia commozione.
«Perché, al momento... tu sei tutto ciò che ho,» risposi con voce rotta, stavolta sinceramente, sull'orlo di una crisi di pianto. I miei sforzi di mantenermi impassibile erano stati vani. «Tu, i Pirati Heart. Tutti voi. Siete parte di me. Non posso perdervi. Non posso perderti,» mugolai, sprofondando la testa nel cuscino. Non avevo ancora finito però, così presi coraggio e parlai di nuovo.
«Se fossi rimasta lì a guardare mentre quell'abominio ti massacrava e poi fossi scappata alla prima occasione utile... non avrei avuto il coraggio di ritornare sul Polar Tang, di guardare in faccia i miei compagni uno ad uno e di dire loro che tu eri morto. Che tu eri morto perché io ero stata troppo codarda per intervenire. Ma soprattutto... non avrei avuto il coraggio di guardare me stessa allo specchio, giorno dopo giorno. Il rimorso mi avrebbe lentamente consumata e allora, la mia, non sarebbe più stata una vita. E credimi quando ti dico che ci sono già passata e che in quei momenti avrei preferito la morte.» Una lacrima scese lungo la mia guancia destra. Le mie corde vocali tremolavano un po', ma non era per lo sforzo. Era perché nel petto sentivo uno strano senso di malinconia che ben presto si era diffuso anche nel resto del mio corpo. Law non mi aveva mai guardata. Per tutto il tempo in cui avevo parlato era rimasto a fissare la porta del bagno davanti a sé.
«Come vedi, la mia è stata una scelta facile. Piuttosto sofferta, ma facile. Perché io non sono più la persona che ero una volta. Nel bene e nel male. Ti prego di capirlo e di accettarlo. Anche perché tu hai contribuito a rendermi diversa e mi hai aiutato a diventare una persona migliore. Una persona che c'è quando qualcuno a cui vuole bene ha bisogno di lei,» continuai, nella speranza di ridestarlo dallo stato catatonico in cui era piombato. Non sarei tornata indietro, nonostante le mille difficoltà che avrei dovuto affrontare. Perché Zoro mi aveva insegnato che se non fossi neanche riuscita a proteggere il mio Capitano, le mie ambizioni sarebbero state senza valore.
Seguì qualche minuto di tormentante silenzio, in cui mi sforzai di scacciare le lacrime che premevano per uscire.

Lost girl - ONE PIECEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora