Punto di partenza

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Sapevo che il giorno in cui avrei dato di matto sarebbe arrivato. Avrei voluto resistere più a lungo, ma ero già oltre le mie possibilità.
Era una normalissima – e indaffaratissima – giornata come le altre. Era mattina e stavo portando una cesta di panni sporchi nella sala adibita alla lavanderia, mentre riflettevo su quanto orripilante e scomoda potesse essere quella maledetta divisa bianca che ero stata costretta a indossare. Shachi e Penguin ne erano entusiasti, così finalmente avremmo potuto fare i tre gemellini felici, ma io ne ero disgustata. L'unica nota positiva era che almeno non dovevo indossare quegli orribili stivali che avevano tutti. Mi era stato concesso di tenere ai piedi i miei, che, per quanto sembrasse stupido, per me erano molto meglio.
Fu una frase a scatenare tutto.
«Fai attenzione, Maya» disse Omen, preoccupato, alla sua amica. Davanti a me, nel lungo corridoio, c'erano i miei due compagni che chiacchieravano amabilmente.
«So badare a me stessa» rispose lei, sogghignando.
«A cosa devi fare attenzione?» chiesi io a quel punto, incuriosita.
Maya esitò un attimo prima di rispondermi. Appoggiai il cesto a terra ed incrociai le braccia.
«Vuota il sacco» la incalzai, con uno sguardo che non ammetteva repliche.
«Non sono sicura che tu voglia saperlo» affermò, in un sussurro che però udii fin troppo bene.
Alzai un sopracciglio e la fissai, seria.
«D'accordo» cedette lei, sospirando «Questo pomeriggio sbarcheremo su Kaitei, un'isola estiva»
«E quindi?» domandai io, che ancora non avevo ben chiara la situazione.
«Gli abitanti hanno bisogno di cure, sono vittime di un'epidemia virale che li insidia da mesi» mi spiegò.
Evitai di parlare, per non fare brutte figure e per non scatenare l'inferno. Forse non era come pensavo.
«Il capitano ha richiesto la presenza di tutta l'equipe medica e, dal momento che manca del personale, vuole che vada anche io» mi annunciò titubante.
«Tutta l'equipe medica» ripetei io, annuendo lentamente. Era esattamente come pensavo, invece.
«Mi dispiace, Cami» fece la mia amica, mortificata. Alle sue parole scossi la testa.
«E perché? Non c'è nulla di cui dispiacersi» le comunicai, scandendo bene ogni parola.
«Beh...» iniziò, ma io non le diedi il tempo di finire la frase. La superai a passo svelto, sapevo esattamente dov'ero diretta.
Omen, però, mi afferrò il polso, costringendomi a fermarmi e a voltarmi. Guardai prima la sua mano, che mi impediva di continuare a camminare e poi lui, con sguardo truce.
«Non fare cazzate» mi disse, grave.
Continuai ad osservarlo per un paio di secondi, poi, mi divincolai dalla sua presa e sfoggiai il sorriso più innocente che riuscissi a fare. Tornai indietro e recuperai il cesto dei panni sporchi.
«Non ti preoccupare, so come si fa il bucato. I bianchi devono essere lavati separatamente dai colorati. Non voglio che la divisa di Bepo si scolorisca, né tantomeno che le nostre si macchino» lo rassicurai, sempre sorridendo.
A quel punto i miei due interlocutori, dopo essersi scambiati un'occhiata perplessa e sospettosa, si tranquillizzarono e mi lasciarono andare.
Avevano commesso un errore da principianti, però. E, a ripensarci bene, sarebbe stato meglio se mi avessero trattenuta con tutte le loro forze.
Inutile dire che non appena finii di caricare ed impostare la lavatrice, mi diressi nello studio di una certa persona, veloce come un fulmine.

Bussai, la porta era socchiusa. Non aspettai una risposta e la aprii, piano.
«Posso parlarti?» chiesi alla figura dall'altra parte della stanza, che non mi aveva ancora degnato di uno sguardo. Law scostò di poco la sedia dal tavolo, si tolse gli occhiali rettangolari – quelli che usava solo quando aveva intenzione di leggere per molto tempo – e li posò sul libro che stava leggendo. Poi poggiò la schiena allo schienale della seggiola, incrociò gambe e braccia e mi fissò. Evidentemente, aveva capito l'antifona.
«Se è necessario» fece, con aria di sufficienza.
«Lo è» gli risposi io, in maniera dura. Se era la guerra a chi usava il tono più freddo che voleva, la guerra avrebbe avuto. Anche se per me quella era già guerra. Una guerra psicologica infida e insidiosa. E sarebbe stata anche pericolosa, se avessimo continuato così. "Non svegliare il can che dorme", recitava il detto; e io fino a quel momento ero stata fin troppo buona, ma ora il cane si era svegliato ed era pronto ad attaccare, qualora fosse stato necessario.
«Qual è il problema?» volle sapere lui, che cominciava ad infastidirsi. Lo conoscevo bene, sapevo che odiava chi non andava subito al punto e gli faceva perdere tempo. Ma non gliel'avrei data vinta, anzi, gliel'avrei fatta sudare.
«Ho sentito che sbarcherete su Kaitei, oggi» iniziai io «Tu e tutto il personale medico» continuai, appoggiandomi allo stipite della porta e incrociando a mia volta le braccia.
«Le notizie volano» commentò, facendo un piccolo ghigno «Quindi?» chiese poi, fissandomi negli occhi.
«Quindi non sono stata convocata» gli feci presente in tono piatto.
«Ne sono consapevole» replicò lui, con un tono altrettanto piatto.
«E a quanto pare porterai Maya al posto mio. Mi sbaglio?»
Cercai di sembrare il più distaccata possibile, anche se non era affatto facile.
Si limitò ad annuire quasi impercettibilmente, tornando a concentrarsi sulla sua lettura, come se io non fossi lì.
«Per quanto ancora hai intenzione di andare avanti con questa farsa?» gli domandai. Lui alzò gli occhi dal libro e ricominciò a fissarmi. Intercettai il suo sguardo e lo fissai a mia volta, scura in volto. «Per quanto ancora andremo avanti così? Per quanto ancora tu continuerai a rispondermi a monosillabi e a rivolgermi sguardi fugaci e disgustati? Quanto dovrò aspettare, prima di rivedere un paziente, un'isola o una sala operatoria?»
Alzò un sopracciglio, ma non disse niente. Forse non sapeva cosa rispondermi.
«Sai che sono brava. Sai quanto valgo e sai anche che di tutto l'equipaggio medico sono quella con più potenziale. Quindi, per quanto ancora hai intenzione di punirmi per aver commesso un errore?» continuai, fiera e sicura.
«Tu non hai commesso un errore» cominciò, serio.
Corrugai le sopracciglia. Dove voleva arrivare?
«Tu hai deciso di commettere un errore» mi spiegò, impassibile.
Sbattei le palpebre un paio di volte per cercare di comprendere quello che mi aveva appena detto. Quando, pochi secondi dopo, ci arrivai, non seppi cosa rispondergli. Non immediatamente, almeno.
«E anche se fosse? Sono un essere umano, come quasi tutti su questo sottomarino. E, come tutti, posso sbagliare. O decidere di sbagliare, o quello che è. Perciò, perché continui a trattarmi come se ai tuoi occhi fossi spazzatura?»
Alla fine, avevo trovato qualcosa da dire. E la mia era anche un'argomentazione valida.
«Ti tratto come meriti di essere trattata» annunciò, con una calma disarmante. E fu proprio il modo in cui lo disse a offendermi e ferirmi.
«Mi merito una seconda occasione. Mi merito di sbarcare su quell'isola, e tu lo sai meglio di me» lo incalzai. Se voleva giocare a chi era più bravo a rigirare le parole, sarei stata al suo stupido gioco. E avrei anche vinto, perché ci sapevo fare.
«Tu non ti meriti niente» sputò. Lo disse con un tale disprezzo nella voce che il mio stomaco si attorcigliò su se stesso «L'unico motivo per cui sei qui, è perché io ti permetto di stare qui. Ma ricordati che niente ti è dovuto».

Lost girl - ONE PIECEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora