Disobbedienza

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I giorni passavano inesorabilmente, alcuni più lenti, altri più veloci. Ero riuscita ad inserirmi abbastanza bene all'interno della ciurma, e avevo più o meno socializzato con tutti, anche se avevo già individuato un paio di persone con cui non avrei mai fatto amicizia, per divergenze di pensiero e modo di fare.
«Bepo, che giorno è oggi?» chiesi al Visone una volta che avemmo terminato l'addestramento.
L'orso polare sembrò riflettere per un paio di secondi. «È giovedì. Perché?»
«Questo lo so. Intendo la data» feci io, un po' infastidita. Effettivamente non avevo specificato, e benché avessi perso la cognizione del tempo, che era giovedì poteva arrivarci anche un bambino.
«Oh. Chiedo scusa» chinò il capo in segno di dispiacere. «Dunque, vediamo... è il 29 Settembre».
Feci un paio di conti rapidi a mente.
«Oh, cazzo!» esclamai ad occhi strabuzzati. Poi corsi via, lasciandolo lì, più perplesso di prima.
Pochi giorni dopo sarebbe stato il compleanno di Marco, a cui avrebbe seguito quello di Law. Avevo un piano in mente. Avrei fatto i regali ad entrambi per tempo. Ma quello era stato un periodo così intenso, per me, che ne ero stata completamente assorbita. Ora ero nella merda fino al collo. Dovevo trovare due regali – di cui uno da spedire chissà dove – in pochissimo tempo. Accidenti a me e alle mie scarse capacità organizzative. Comunque, secondo i miei calcoli saremmo sbarcati l'indomani su un'isoletta tranquilla. Siccome al chirurgo piaceva passare inosservato, ogni volta che sbarcava per fare scorta di cibo o carburante, ordinava a sei o sette subordinati di scendere insieme a lui. Gli altri sarebbero dovuti rimanere rigorosamente a bordo a "fare la guardia al sottomarino", che tradotto stava a significare che i malcapitati sarebbero stati a girarsi i pollici per tutto il tempo. Non c'era mai niente da fare su quello stupido sottomarino. Come lo sapevo? A parte il fatto che l'avevo sempre sospettato, erano due mesi che ero rinchiusa là. In tutto quel tempo eravamo emersi sei volte. Solo una volta, per puro miracolo, mi era stato concesso di scendere dal sommergibile e visitare uno scorcio di mondo. "Di solito il personale medico rimane a bordo", aveva detto Penguin, "a meno che non si tratti di una missione pericolosa o di affari seri. In quel caso siamo tutti tenuti a scendere". Ma a me non interessava un bel niente delle questioni in cui si andava ad invischiare Law, io dovevo assolutamente scendere dall'imbarcazione, in un modo o nell'altro.

La sera stessa, provai con il "metodo Cami", lo stesso metodo che usavo per evitare di andare a scuola. Andai in camera mia e iniziai a cercare l'ombretto porpora nella mia trousse. Ne presi un po' con l'apposito pennello ed iniziai ad applicarlo appena sotto alla rima ciliare inferiore. Una volta finito, con il dito cercai di sfumarlo omogeneamente. Aggiunsi anche un tocco di grigio. Il capitano era uno a cui non sfuggiva niente, per questo dovevo cercare di farlo sembrare quanto più reale possibile. Ad opera conclusa, mi avviai verso lo studio di Law. Bussai quando fui arrivata alla porta.
«Avanti» disse. Aprii la porta con cautela, premurandomi di assumere un'espressione da cane bastonato, di posizionare una mano sullo stomaco e di chinarmi leggermente in avanti. Lui era seduto, intento a trascrivere qualcosa su una pagina di un quaderno. Mi rivolse un'occhiata veloce e tornò a concentrarsi su quello che stava facendo. Poi sembrò ripensarci e mi squadrò da capo a piedi, in attesa che dicessi qualcosa.
«Credo che sarebbe una buona idea se domani mi dessi il permesso per sbarcare» iniziai, cercando di mimare conati di vomito e malessere generale.
Si abbassò leggermente, con indice e pollice, gli occhiali che portava e interruppe il suo lavoro, girandosi verso di me.
«E perché dovrei farlo?»
«Perché ho il mal di mare. Ho bisogno di un paio di ore sulla terraferma»risposi, fingendomi sofferente.
Si tolse gli occhiali. «Quindi pensi che un paio di ore sulla terraferma risolvano il problema, che tra l'altro, si è presentato all'improvviso?»
Annuii appoggiandomi con una mano alla parete e portandomi il braccio libero alla bocca per simulare fastidio allo stomaco.
«Non vorrai mica che io battezzi il tuo sottomarino con la mia bile, vero?» chiesi, nel modo più provocatorio che il mio finto malessere mi permetteva.
«Il mio sottomarino è molto prezioso per me. Se pensi di non essere in grado di contenerti, chiuditi in bagno. Ne hai uno tuo, un privilegio che non molti hanno».
Non aveva tutti i torti – e questo era uno dei motivi principali per cui certe volte lo detestavo – ma dovevo trovare assolutamente un modo per convincerlo a farmi sbarcare.
«Non puoi sapere per quanto tempo avrò il mal di mare. Tu sei un medico, dovresti volere che le persone stiano bene. Domani sbarcheremo, e a me basterebbero due ore su quell'isola per stare meglio».
«Io non posso saperlo, ma nemmeno tu. Se pensi che la nausea non passerà entro ventiquattro ore, allora vai in infermeria e prendi dei farmaci antiemetici. Oppure fatti una flebo. Ormai dovresti esserne in grado.»
A quelle parole mi irrigidii per qualche secondo. Mi aveva messo all'angolo. Ma quel che era peggio era che probabilmente mi sarei dovuta ficcare un ago in vena per rendere la mia messinscena credibile. Certo, avrei potuto rigirare la situazione a mio vantaggio: avrei pur sempre potuto rivendicare l'inefficacia delle medicine e convincere così Law a farmi evadere per un po' da quella trappola per topi. Ma una flebo non era il prezzo che ero disposta a pagare per uno stupido regalo.
«Io sono per i rimedi naturali. Aria fresca, piedi che poggiano per terra. Pavimento che non oscilla. Questo genere di cose. Non puoi tenermi attaccata ad una flebo per tutta la vita, no?»
Il capitano dapprima fece una faccia appena perplessa, poi ghignò ed infine tornò serio.
«Rimedi naturali... dunque hai sbagliato specializzazione. Se è così che la pensi, non intendo più istruirti all'arte della medicina. Non esistono rimedi naturali.»
«Cosa?» spalancai gli occhi. La situazione stava degenerando. Scossi la testa, quasi incredula. «Non è questo il punto! Ti sto dicendo che mi basta solo che tu mi dia il permesso per sbarcare per qualche ora.»
«No.»
«Perché no!? Io ho bisogno di aria. Aria fresca. Sono due settimane che sono rinchiusa in questo angusto sottomarino! Non ce la faccio più! Ho bisogno di aria.»
Cominciavo a pensare di aver davvero bisogno di sbarcare.
«Domani tu non lascerai il sottomarino. E la questione è chiusa.»
A quelle parole, per un attimo, non ci vidi più dalla rabbia. Lo fissai dritto negli occhi, il mio sguardo carico di odio. Sapevo che non ci sarebbe stato nessun ripensamento da parte sua, quando era così era inutile tentare di convincerlo, anzi, rischiavo solo di peggiorare la situazione se avessi continuato ad insistere. Quindi feci un paio di respiri profondi prima di girarmi, infilare la porta e sbatterla con forza alle mie spalle.
Camminavo iraconda per il corridoio che portava alla mia camera.
«Ehi, Cami, hai un aspetto schifoso, oggi!» scherzò Penguin, che passava di lì.
Girai la testa con uno scatto e lo fulminai con lo sguardo. «Vaffanculo!».

Lost girl - ONE PIECEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora