Capitolo 1

23 2 0
                                    

 
La mattina dopo essere tornate finalmente a vivere insieme, io e Nila riprendemmo a tutti gli effetti la nostra vita normale. Quella mattina facemmo colazione assieme, bevendo un buon caffè e preparando del latte per Ece. Ece amava mettere del miele nel latte e Nila mi rimproverava sempre perché io gliene mettevo a tonnellate per farla contenta. Ece mi adorava e io adoravo lei. L’avevo fin da subito presa sotto la mia ala protettiva e piano piano avevamo costruito un rapporto che non aveva nulla da invidiare ad un normale rapporto fra madre e figlia. Lei aveva addirittura iniziato a chiamarmi “Mami”, storpiando il nome “Mamma”. Io non ero del tutto felice di questa cosa perché, seppur io fossi molto legata a Nila e ad Ece, e la considerassi quasi come figlia mia, non mi sentivo abbastanza degna di quel soprannome e in più non volevo ricoprire un ruolo che biologicamente non mi apparteneva, non volevo togliere spazio a Nila e alla sua maternità, che tanto amava. Lei adorava proprio essere madre, era la cosa che più nella vita le piaceva fare, le veniva naturale. Io invece la guardavo con ammirazione, chiedendomi quasi come fosse possibile amare un bambino più di te stessa. Io nella vita non avevo mai avuto l’obiettivo di diventare madre, anzi, non volevo proprio avere figli, e l’idea che Ece mi considerasse quasi una madre mi spaventava: per quanto la sentissi vicina a me, cercavo sempre di tenere distanti le mie emozioni quando pensavo a lei, perché il timore di affezionarmi troppo, oppure di essere madre a tutti gli effetti mi terrorizzava. Ma in ogni caso, tentavo di convivere alla bene e meglio con questa mia doppia natura, ovvero l’estrema repulsione al pensiero di essere madre, e la mia naturale propensione a proteggere e amare Ece. Probabilmente c’era qualcosa di irrisolto in me, e Nila a poco a poco mi stava aiutando a sbrogliare questa matassa.
Io e Nila lavoravamo nello stesso ospedale, ma nonostante passassimo la maggior parte del tempo nello stesso luogo, non ci incrociamo quasi mai: avevamo orari totalmente diversi e anche mansioni diverse. Lei tutto il giorno piegata a pulire il pavimento ed io tutto il giorno chiusa in sala autoptica ad operare sui cadaveri. Quella mattina, come quasi tutti i giorni della settimana, ci muovemmo con due macchine, lei andò a lasciare Ece a scuola e io andai direttamente al lavoro. Vidi Claudius all’entrata, gli feci un cenno – lavorava come guardia all’ingresso dell’ospedale – e lui ricambiò freddamente il mio altrettanto timido saluto. Mi diressi nel mio padiglione, perfettamente puntuale, e attesi il mio collega Yesil, perennemente in ritardo. L’unico momento in cui io e Nila ci potevamo incontrare era la pausa caffè. La mia pausa caffè andava dalle 11.00 alle 11.15, mentre lei non aveva una pausa ben definita, perciò mi raggiungeva sempre in quella finestra oraria e ci mettevamo un po' a chiacchierare sedute al bancone del bar dell’ospedale. Quel giorno, il suo turno finiva proprio alle 11.00, ma rimase un quarto d’ora con me a farmi compagnia. Dopo la pausa caffè ci salutammo e lei andò via a prendere Ece da scuola. Tutto era al suo posto, non c’era nulla che potesse turbare la nostra serenità, era tutto perfetto. Mi diressi sorridente nel mio reparto, indossai i guanti e ritornai in sala.
Non potevo immaginare, però, che mentre io incidevo il corpo del mio prossimo paziente e mi accingevo ad eseguire l’autopsia, Nila saliva in macchina, si allacciava la cintura e partiva, diretta verso la scuola di Ece e verso il suo triste destino.
Dopo circa venti minuti dall’inizio dell’autopsia, un mio collega infermiere del pronto soccorso piombò nella sala autoptica, con il fiatone e le guance arrossate per la fatica. Io e Yesil ci voltammo di scatto verso di lui, irritati dalla sua irruzione. Non ebbi nemmeno il tempo di lamentarmi che lui pronunciò una frase che mi fece crollare il mondo addosso:
<<E’ arrivata Nila in pronto soccorso. Ha avuto un incidente, è grave.>> Sbiancai. Non oso immaginare l’espressione di orrore e sgomento che mi si dipinse in volto in quel momento, so solo che gettai gli attrezzi in mano a Yesil e gli chiesi di terminare l’autopsia. Io mi fiondai fuori dalla sala, ancora vestita di tutto punto e con il sangue del paziente ancora sul camice e raggiunsi il pronto soccorso correndo come una matta. In quei sessanta secondi che mi separarono da Nila, immaginai gli scenari peggiori: mille cose mi passarono per la testa, una peggio dell’altra, e avrei tanto voluto svegliarmi in preda ad un incubo. In pronto soccorso, ci misi un secondo ad individuare Nila. I miei colleghi erano tutti proni su di lei, al centro della stanza, che le infilavano drenaggi e le facevano punture a più non posso. Mi avvicinai anche io, sgomitando fra medici e infermieri.
<<Che cosa è successo?>> Domandai, con la voce stridula e spaventata.
<<Ha investito, è stato un incidente molto grave.>>
<<Prognosi?>>
<<Fracasso facciale, collasso polmonare, frattura scomposta al femore, arteria femorale danneggiata, frattura alla rotula e non so cos’altro… Dovremmo fare ulteriori accertamenti.>> Mi mancò il respiro. La mia povera Nila era letteralmente ridotta a brandelli, in fin di vita. La guardai: il suo viso meraviglioso era irriconoscibile. Aveva la mascella che usciva fuori dalla bocca, era come se si fosse staccata e adesso stesse fluttuando fuori dalle sue labbra; aveva il naso spaccato e il sangue che le usciva perfino dalle orecchie. Era una visione oscena. Tremavo, non riuscivo a guardarla. Era raccapricciante vedere la persona più cara a me in quelle condizioni, era qualcosa di disumano. Miracolosamente, lei era cosciente, non riusciva a parlare bene ma mugolava dei lamenti strazianti. Mi feci forza e la guardai: lei sembrò biascicare il mio nome sanguinolento e io scoppiai in un pianto esasperato.
<<Hande… Sto bene…>> Mugolò. In quel momento compresi quanta forza avesse questa donna dentro di sé: pensava a rassicurare me piuttosto che concentrarsi su sé stessa, morente.
<<Andrà tutto bene, Nila, andrà tutto bene.>> La rassicurai. Si lamentò, sta volta più forte, gridando. Gli infermieri si agitarono nel vederla così all’improvviso.
<<Cosa c’è Nila? Che succede?>>
<<Le gambe…>> Alzò un po' la testa e si guardò le gambe. Potei intravedere una lacrima che si mescolava al sangue sul suo volto. Aveva i muscoli delle braccia tesi, e stringeva la barella con le mani talmente forte da avere le nocche bianche come il latte. Gli infermieri si scambiarono delle occhiate preoccupate. Uno di essi si spostò dall’altra parte della barella e le toccò il piede della gamba non fratturata.
<<Senti qualcosa?>>
Nila scosse la testa in segno di negazione.
<<Senti qualcosa?>> Ripeté, tentando in un altro punto.
Scosse di nuovo la testa, stavolta con più furia, e la capovolse all’indietro, gettando un grido angosciante.
<<Dobbiamo intervenire sul collasso polmonare e sulle emorragie, poi eseguiremo una TAC. Ho pesanti dubbi che la colonna vertebrale sia integra…>> Impallidii. Prima ancora che potessi rendermi conto di quello che aveva appena detto il medico, me la portarono via. Riuscii solo a dirle che le volevo bene e che sarebbe andato tutto per il meglio prima che la portassero definitivamente lontana dalla mia vista.
Rimasi al centro del pronto soccorso per qualche minuto, ancora incredula e sotto shock. Mi passai le mani fra i capelli e le strinsi sulla testa. Sembrava che mi avessero appena dato una martellata sulle tempie, la testa sembrava starmi per scoppiare. Tremavo tutta, come una fogliolina accarezzata dal vento ed ero pallida come la morte. Qualcuno, non so esattamente chi, si accorse di me e mi fece sedere, mi sciacquò il viso e mi diede dell’acqua zuccherata, che ingurgitai meccanicamente, senza pensare realmente al gesto che stavo compiendo. Vedevo l’infermiera sfuocata tenermi il viso con le mani e parlarmi, ma non ricordo una sola parola di ciò che mi disse. L’ultima immagine che ho di quei momenti è quella di un uomo, alto, sulla trentina, con i capelli biondo ramato e gli occhi verdi che si avvicinava a me, mentre l’infermiera mi reggeva. Aveva il braccio sanguinante, che teneva avvolto in una garza. Mi chiese se conoscessi quella ragazza, ma appena nominò la mia bella Nila, persi i sensi e svenni.
 
 
Mi risvegliai con a fianco quell’uomo, in una barella accostata al muro sempre in pronto soccorso. Mi alzai lentamente, toccandomi la testa.
<<Sta bene signorina?>> Chiese lui.
<<Dov’è Nila? Come sta?>>
<<Hanno fermato con successo l’emorragia interna e il collasso polmonare, e hanno ricucito le ferite più lievi. E’ entrata in coma, ma i medici hanno detto che è abbastanza normale e che sembra essersi stabilizzata>>
<<Hanno fatto la TAC?>>
<<Sì… Non ho buone notizie>>
<<Me le dica lo stesso>>
<<Ha una vertebra rotta, ma abbiamo già parlato con il Primario di neurochirurgia e ha detto che sarà lui stesso ad occuparsi di lei. Secondo lui, dopo l’operazione tornerà come nuova;  è un’operazione di routine, non dovrebbero esserci particolari complicanze.>> Mi misi seduta. Ero rincuorata che fosse ancora viva e che ci fossero delle speranze per lei, anche se prevalevano la paura e l’incertezza. L’idea che adesso lei fosse in coma mi terrorizzava.
Tentai di distogliere un attimo i miei pensieri da Nila, le immagini che avevo visto poco prima mi avevano traumatizzata, e rimbombavano nella mia mente senza lasciarmi scampo. Decisi di concentrarmi su quell’uomo, per non uscire fuori di testa.
<<Lei chi è?>>
<<Mi chiamo Serkan Polat>>
<<Perché hai quella ferita sul braccio?>>
Rimase in silenzio.
<<Perché hai quella ferita sul braccio?!>> Ripetei, sta volta più alterata.
<<Sono stato io a colpire Nilüfer con la macchina.>> Non appena udii quelle parole, la mia mente si annebbiò, e mi scagliai contro di lui. In un millesimo di secondo gli saltai addosso, aggredendolo e gridando come una bestia. Lo riempii dei peggiori insulti, e accorsero tre guardie a fermarmi. Mi tenevano da sotto le ascelle, mentre io mi dimenavo e opponevo resistenza, trascinandomi a peso morto per terra. Anche lui si scagliò contro di me, ma solo verbalmente e non fisicamente. In quel momento accorse Yesil, che aveva appena terminato il turno ed era venuto a vedere se stessi bene.
<<Hande, cosa diavolo ti prende?!>> Mi chiese Ferit, mentre tentava di tranquillizzarmi.
<<Hande, eh? È così che ti chiami?>> Disse quell’uomo viscido.
<<Per te sono la Dottoressa Demir, maledetto!>>
<<Non ho investito la tua amica apposta! Ho avuto un guasto ai freni e ho perso il controllo dell'auto, ma non sono stato io a ridurla così.>>
<<E allora cosa è successo? Parla!>>
In quel momento mi calmai. Avevo la necessità di sapere come fossero andate le cose, ed ogni parola uscita dalla sua bocca avrebbe dovuto stamparsi come un segno indelebile nella mia mente. Non potevo permettermi di perdere quella testimonianza per il mio crollo mentale.
<<Stavo guidando in tangenziale, ero sui cento, cento dieci chilometri orari massimo, e la macchina di Nilufer era davanti alla mia. Lei ha rallentato leggermente, ed io ho provato a rallentare di conseguenza, ma i freni non hanno funzionato. Sono entrato in panico e non ho avuto nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo che già ero quasi addosso a lei. Così, con un colpo brusco allo sterzo l'ho sorpassata, ma l'ho sfiorata con il fianco della macchina, e a velocità Nilufer ha sbandato, e così anche io. Mi sono ritrovato ai lati della tangenziale con la macchina schiantata sul guard rail, con l’airbag esploso e la cintura tirata al massimo, erano stati loro a salvarmi la vita. Quando mi sono girato per vedere se la ragazza stesse bene, ho visto che si era schiantata dal lato opposto della carreggiata, sul guard rail, e la sua macchina aveva fatto una sorta di testa coda, rivolgendo la parte anteriore dell'auto nel senso opposto a quello di marcia. In un paio di secondi, ho visto arrivare un tir che a tutta velocità l'ha investita in pieno, e ha fatto un balzo di più di sessanta metri. Della macchina è rimasto a stento il telaio.>> Mi sentii di nuovo mancare. Come era stato possibile un incidente del genere? Andai in iperventilazione ed ebbi un attacco di panico. Serkan rimase a guardare, sospirando e passandosi le mani fra i capelli, inerme. Ferit mi reggeva, mentre mi disperavo contorcendomi a terra. Non avevo mai provato una sensazione di angoscia come quella e per poco non svenni di nuovo. Mi sentivo come bruciare dentro e il cuore pareva uscirmi dal petto ad ogni battito. Soffocavo, sdraiata sul gelido pavimento del pronto soccorso. Non riuscivo ad accettare quello che era successo.
Intanto Nila, nell’altra stanza, giaceva in coma, in bilico fra la vita e la morte.
 
Quando mi fui calmata abbastanza, mi convinsero a tornare a casa. Dato che Nila era stata investita mentre andava a prendere Ece a scuola, nessuno aveva portato a casa la piccola, che era rimasta a scuola chissà per quanto tempo. Poi, qualche infermiere dall’anima buona, nostro collega, ricordandosi della figlia di Nila aveva avvisato la scuola, che a sua volta aveva avvisato la polizia, che aveva prelevato Ece e l’aveva tenuta in caserma in attesa che qualcuno si facesse vivo per lei. Andai nella caserma che mi era stata indicata che ormai era il tramonto. La piccolina stava bene, ma era confusa e molto spaventata. Io, dal mio canto, ero ridotta uno straccio: avevo i capelli spettinati e i vestiti ancora macchiati del sangue di Nila. Non appena Ece mi vide, mi saltò addosso e si mise a piangere. La consolai come meglio potei, ma mi fu estremamente difficile rispondere alle sue domande.
<<Dov’è la mamma? Perché mi avete abbandonata?>>
<<No, amore mio, non ti abbiamo abbandonata…>> In quel momento ero davanti al bivio: dirle la verità oppure fingere che andasse tutto bene. Nella mia vita, i miei genitori avevano sempre preso la seconda strada: ogni qual volta c’era un problema, loro mi illudevano che andasse tutto bene, ma io riuscivo subito a capire che mi stavano mentendo. I bambini hanno questa straordinaria capacità di percepire ogni singola emozione, e quando si trovano davanti ad una menzogna la smascherano subito. Se le avessi detto che tutto era a posto, lei avrebbe intuito la mia bugia, e mi avrebbe incalzata con le domande, fino ad avere la conferma che qualcosa non andava. Se le avessi detto subito la verità, le avrei risparmiato la sofferenza dell’essere allo scuro di tutto, e soprattutto avrei iniziato, dolcemente, a prepararla a tutte le evenienze.

Fra le pieghe dell'odio Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora