Capitolo 8

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Stavo preparando i pop-corn. Fuori pioveva ed era sera. Nila ed Ece sedute sul divano stavano scegliendo il film da vedere. Ero sempre stata una pessima cuoca, e avere l’infausto compito di cucinare quei chicchi di mais mi urtava alquanto. Era pazzesco come aprire un cadavere risultasse più semplice di preparare un po' di pop-corn. Ad Ece avevo raccontato che aiutavo le persone ad arrivare in Paradiso una volta morte, non mi sembrava il caso dire ad una bambina così piccola che la sua amica preferita dissezionava i cadaveri per stabilirne le cause di morte. In realtà, io mi sentivo proprio così: una persona che aiuta a dare giustizia ad altre persone che non ci sono più. Mi spaventava una sola cosa dell’essere medico legale: sapere che quelle persone davanti a me avevano avuto una vita, che erano state felici, tristi, arrabbiate, e che adesso si limitavano ad essere corpi morti distesi in obitorio. Mi spaventava sapere che la vita finiva. Che scegliere un film con la mamma sul divano finiva. Che bruciare i pop-corn finiva. Mi terrorizzava l’idea che un giorno le mie mani, laccate con uno smalto color vinaccia sulle unghie, così vive, così lisce e giovani sarebbero diventate delle appendici rugose, morte e fredde. Mi chiesi se davvero tutto finisse così o se ci fosse qualcosa ad aspettarci dall’altra parte.
E’ vero, lo ammetto, quella sera ero particolarmente malinconica.
Ma c’è un motivo che giustifica perfettamente la mia malinconia: avevo paura. Quelle famose radici di cui avevo parlato con Nila appena un mese prima. Mi guardai: io, Hande Demir, stavo preparando i pop-corn per una bambina e per la mia amica a casa, in una serata uggiosa, con un grembiule che sembrava quello di mia nonna, pronta per vedere un film sotto le coperte sul divano. Io, che ero sempre stata un’avventuriera, una libertina senza meta, io, adesso stavo incarnando la perfetta madre e casalinga di un qualunque film tipicamente romantico. Io, Hande Demir, stavo mettendo radici, e tutto ciò mi faceva paura. Avevo paura di perdere la mia forza, la mia indipendenza, avevo paura di soffrire. Ma ogni volta che guardavo Nila mi sentivo a casa, e ogni volta che guardavo Ece mi innamoravo di lei e della sua dolcezza. Non potevo fare a meno di mettere radici per loro.
Portai i pop-corn a Nila ed Ece e mi sedetti anche io sul divano con loro. Il film che avevano scelto si intitolava: “La ricerca della felicità”, ed era un film con Will Smith che parlava della storia di un padre e di una figlia. Era stata proprio Ece a scegliere quel film, dicendo che l’aveva visto a scuola con le maestre, e che aveva voglia di rivederlo. Non avevo mai visto quel film, ma arrivate ai primi venti minuti, notai che Nila era piuttosto turbata. Quel film raccontava di un rapporto padre-figlia stupendo, e Ece un papà non ce l’aveva. Chissà cosa passò per la testa di Nila quella volta. Probabilmente si sentiva in colpa, probabilmente soffriva nel sapere che sua figlia non avrebbe mai avuto e nemmeno conosciuto suo padre. Improvvisamente, anche io mi sentii folgorata da quei pensieri e da quelle emozioni: era come se Ece stesse diventando pian piano anche figlia mia, e sapere che uno stronzo là fuori le aveva abbandonate mi mandava in bestia. Alla fine del film, Nila quasi non riuscì a trattenere le lacrime. Rimanemmo in silenzio tutte e tre, mentre lei turbata spegneva la TV. Ece mi guardò e accarezzai la sua piccola testolina per rassicurarla, sorridendole.
<<Ti è piaciuto il film Ece?>> Chiesi, sorridendole.
<<No.>> Mi rispose lei, turbata.
<<Perché no?>>
<<Perché non è giusto. Quella bambina aveva un papà e alla fine è morta, perché io non posso andare con quel papà? Io non ce l’ho un papà e lui non ha una figlia.>> Sentii il mio sangue nelle vene gelare. Nila si voltò, per nascondere le lacrime e i sospiri carichi d’angoscia. Si alzò dal divano, per non far agitare ulteriormente Ece. Lasciò a me l’infausto compito di rispondere alle sue domande, ma mi armai di pazienza e cercai, come meglio potei, di spiegarle tutto.
<<Non si può fare purtroppo, piccola mia. Tu non sei sola però: c’è la mamma e ci sono io, non hai bisogno di un papà quando hai una mamma bellissima e io sono vostra amica!>>
<<Sì, ma a scuola tutti gli altri bambini vengono con il loro papà e la loro mamma, perché io vado a scuola con la baby-sitter?>> La sua intelligenza mi metteva in difficoltà. Sentivo Nila singhiozzare dalla cucina, disperata per le domande della sua piccola. Mi trovai in serio imbarazzo e difficoltà, ma tentai di fare del mio meglio.
<<La mamma lavora tanto per te, piccola mia, per questo la baby-sitter ti porta a scuola. La mamma è sempre con te, non ti abbandonerà mai, e nemmeno io. Hai capito?>>
<<Sì... Ma io voglio sapere...Come è fatto mio papà, che nome ha, se è una persona buona o se è cattivo.>>
<<Piccola mia… Papà non è una persona cattiva, ma purtroppo non è potuto restare con te e con la mamma perché il destino ha deciso un’altra strada per lui. Lui se n’è andato via, ma non importa: un giorno ti prometto che lo conosceremo insieme e potrai sapere tutto di lui: di che colore ha i capelli, che voce ha, come si chiama e chissà, magari è pure simpatico.>> Mentii spudoratamente, ma non potevo dire a quella povera creatura che suo padre era un meschino che l’aveva abbandonata, fregandosene di lei. Preferii illuderla e darle delle false speranze, piuttosto che farle conoscere il male del mondo già a questa età.
<<Secondo te gli piacciono le kofte?>> Mi chiese, rincuorata dalle mie parole, con gli occhi luccicanti.
<<Sono sicura che le adora! Comunque piccola peste, per te si è fatto tardi, è ora che tu vada a dormire!>> Le saltai addosso sul divano e le feci il solletico, per farla distrarre da quei discorsi così pesanti. La presi in braccio, mentre lei rideva a crepapelle e la portai di peso a letto, le lessi una storia e lei si addormentò, beata come un angioletto.
Quando tornai da Nila, la trovai piegata sul bancone della cucina che singhiozzava, mentre l’acqua del rubinetto scorreva, senza che nessuno la stesse utilizzando. Era come se fosse in una sorta di trans. Chiusi l’acqua del rubinetto e la abbracciai da dietro, cercando di stringerla più forte che potei. Rimanemmo in silenzio così, per qualche minuto, poi biascicò qualcosa.
<<Sono un fallimento di madre. Ho sbagliato tutto.>> Sussurrò, mentre un fiume di lacrime le rigava il volto. Mi staccai dall’abbraccio, con gli occhi sbarrati per lo stupore.
<<Nila guardami.>> Le intimai, ma lei rimase piegata sul bancone a testa bassa. <<Nila guardami.>> Le ripetei, e lei si voltò, spostandosi i capelli biondi dal volto, rosso e segnato dalle lacrime. <<Come puoi solo pensare di dire una cosa del genere?>>
<<Sono stata una stupida! Ho messo al mondo una figlia con l’uomo sbagliato, condannandola ad una vita senza un padre. Lei sarà sempre diversa, Hande. Lei non sarà mai come tutti gli altri bambini. Chi si occuperà di lei quando io non ci sarò? E se dovessi perdere il lavoro? O, peggio, dovesse succedermi qualcosa? E se non fossi in grado di crescerla? Hande, io sono sola, non ho una famiglia né nessuno che mi aiuti. Io voglio il meglio per mia figlia, ma so che non potrò mai darglielo.>>
<<Allora perché credi che io sia qui?>> Le chiesi, in tono alterato. <<Io sono qui per aiutarti, e non per pena, ma perché tu… Sei la mia famiglia, insieme ad Ece.>>
<<Io non posso chiederti di prenderti carico di una figlia non tua. Tu sei una donna libera, e non voglio essere io ad incastrarti in una vita che non vuoi. Non devi pagare tu per i miei errori.>> Mi voltai, ridendo istericamente.
<<Non lo capisci proprio Nilufer. Io sono una donna libera, ed Ece non è figlia mia, è vero. E proprio perché sono una donna libera scelgo ogni giorno di prendermi cura di voi. Tu non puoi nemmeno immaginare il bene che mi fate tu e questa bambina. Mi viene naturale proteggervi. E lo farò fino alla fine.>>
<<Io non posso chiederti questo. Non posso, non lo accetto. Tu ed Ece avete un bellissimo rapporto, ma tu devi essere libera, senza il nostro peso sulle spalle. E anche la tua presenza non può colmare l’assenza di un padre.>> In quel momento, mi sorse spontanea una domanda che fino ad allora avevo sempre evitato. Da quando ci conoscevamo, Nila non mi aveva mai detto molto sul padre di Ece e nemmeno sul perché se ne fosse andato. Così, quella sera, mi presi di coraggio e glielo chiesi. Lei non mi volle dire nemmeno il suo nome, mi disse solo che era un ragazzo poco più grande di lei, che all’inizio la loro storia d’amore andava a gonfie vele e che si amavano da pazzi: poi era arrivata la gravidanza indesiderata, lui aveva iniziato ad assentarsi spesso, ad essere meno presente, sembrava non volesse quasi accettare il fatto che Nila fosse rimasta incinta. Poi, un giorno, era scomparso, lasciandole un bigliettino con su scritto: “Perdonami Nilufer per quello che sto facendo. Non sono in grado di prendermi cura di nostra figlia, non posso essere suo padre. La mia scelta è il meglio per entrambe. Spero che riuscirai a crescere nostra figlia al meglio. Addio Nila, ti amo.”>>
Quale persona meschina e codarda potrebbe mai scrivere una cosa del genere?
Nila aveva affrontato la gravidanza da sola, dovendo combattere ogni giorno con la consapevolezza che sua figlia sarebbe stata per sempre incompleta, che lei avrebbe dovuto farsi in quattro per crescerla al meglio e con la consapevolezza che non avrebbe mai avuto risposta alle sue domande, perché nemmeno Nila aveva ben chiaro il perché della scelta di quel verme.
Liquidare una mamma e una figlia con un bigliettino.
Non lo conoscevo, eppure odiavo già quest’uomo.

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