Ece mi scuoteva piano nella penombra della mia camera da letto. Una leggera luce attraversava le tapparelle chiuse, e illuminava la stanza di una luce fioca e leggera.
<<Mami… Mami Hande… >> Sussurrava, mentre cercava di svegliarmi. Io mi lamentai, mi strofinai gli occhi e le diedi attenzione.
<<Dimmi piccola.>>
<<Sono le nove di mattina. Ho fame Mami, ho fame.>> Guardai la sveglia. Erano le sette e trenta.
<<Non sono le nove, Ece.>>
<<Ma ho fame Mami, ho fame.>> Sorrisi e scostai le coperte. La piccola stava reagendo molto meglio di quanto mi aspettassi alla morte della madre: aveva solo cinque anni, era troppo piccola per comprendere la gravità di quello che era successo a pieno. Magari, in cuor suo, sperava che la madre tornasse. Credo che vedermi ancora in giro per casa fosse uno dei motivi per cui non era uscita fuori di testa. Avere una figura su cui fare riferimento per un bambino piccolo è importante. In fondo, Ece era cresciuta con la mia presenza fissa in casa da quando aveva due anni, e mi considerava parte integrante del suo nucleo familiare. A volte piangeva, nei momenti di sconforto, poi le compravo qualcosa di buono da mangiare e si rasserenava. Ece era una golosona, amava mangiare di tutto, in particolare dolci e kofte; bastava metterle davanti qualcosa da mangiare per risollevarle l’umore. Non volevo, da un lato, che si attaccasse troppo al cibo e lo vedesse come una via di fuga dai problemi: glielo concedevo solo quando ritenevo opportuno, e preferivo affrontare i momenti no parlando e facendola sfogare. La cosa che più la rendeva felice era l’idea di raggiungere Nila fra le stelle una volta diventata adulta. Questo suo obiettivo mi spezzava il cuore, ma era la sua unica ancora di salvezza, perciò lasciai che vi si aggrappasse. Le accesi la televisione, si mise sotto le coperte ad aspettarmi e io preparai la colazione in cucina. Come Ece si aggrappava all’idea dell’astronauta, io mi aggrappavo a lei per non impazzire. La sua presenza mi dava un motivo per non mollare e non cedere al dolore, e mi ricordava sempre di Nila, nel modo più dolce e bello che si possa fare: attraverso la sua unica figlia.
Non sapevo, però, che anche quell’unica certezza mi sarebbe stata strappata via brutalmente.
Suonarono alla porta. Lasciai il latte a riscaldare sul pentolino e andai ad aprire. Chi poteva essere alle otto meno un quarto di sabato mattina?, pensai. Guardai dallo spioncino, e vidi due uomini ed una donna, elegantemente vestiti.
Aprii.
<<Buongiorno, lei è la signorina Hande Demir?>> Chiese la donna.
<<Sì sono io. Chi siete?>>
<<Servizi sociali.>>
Sbiancai. Capii immediatamente cosa erano venuti a fare.
<<Siamo venuti a prelevare Ece Yildiz.>>
<<Oh, credo che siate in errore.>>
<<Non siamo affatto in errore.>> Rispose offesa la donna. <<E’ stato un uomo a farci la segnalazione, e sembra disposto ad adottarla: Ece Yildiz non è stata riconosciuta dal padre e sua madre biologica è deceduta. Mi dispiace, ma dobbiamo prelevarla.>>
<<Ma ci sono io con lei! Convivevo con la madre da quando lei aveva due anni, sono come una seconda madre per la bambina.>>
<<Mi dispiace signorina, ma è così. La signorina Nilufer Yildiz non ha lasciato nessuna volontà riguardo all’affidamento della figlia, date le circostanze in cui è deceduta, e non ci sono parenti prossimi a cui affidarla. Deve darci la bambina.>>
Non credevo a quello che stavo sentendo. Non potevo sopportare che me la strappassero via, e non potevo nemmeno immaginare cosa sarebbe stato per Ece separarsi dall’unica persona che le era rimasta al mondo. Nel frattempo la piccola, vedendomi tardare, era venuta in salone, ed era rimasta dietro di me ad ascoltare tutta la conversazione.
<<Mami, significa che non posso stare più con te?>> Chiese, con gli occhi lucidi. Mi voltai lentamente. La guardai, e provai ad abbozzare un sorriso.
<<No amore. Non ci separiamo. Tranquilla.>>
<<Signorina, se non ci lascia la bambina saremo costretti a chiamare la polizia.>> Mi rivoltai verso la donna, sta volta con lo sguardo infuocato.
<<Lei non capisce vero? Questa bambina ha solo me adesso, non avete idea del trauma che le darete se me la porterete via!>> Ece iniziò a piangere e a gridare che voleva stare con me. Mi feci prendere dal panico. La situazione si complicò e improvvisamente i due uomini, fino ad ora rimasti in silenzio, entrarono e presero con la forza Ece. Gridavo, sbracciando e aggrappandomi ai due uomini. Tenevo Ece per mano, mentre quei mostri me la strappavano via. La bambina strillava dimenandosi e tentando di liberarsi da quelle forti braccia. Fu tutto inutile. Nel giro di qualche secondo, tutta la mia vita andò in frantumi. Mi rimase impresso l’ultimo sorriso di Ece, mescolato con il suo ultimo grido e il suo ultimo pianto prima di essere brutalmente portata via da me. Mi accasciai a terra e gettai un grido che fendette l’aria.
Il latte nel pentolino bolliva e si era rigettato fuori, riversandosi in tutto il piano cottura.
C’era silenzio in casa. Un silenzio assordante, pesante, malvagio.
Smisi di mangiare e bere.
La mia vita era finita.
Rimasi per non so quanto tempo immobile seduta per terra, a fissare il pavimento. La luce si alternava con il buio, e io persi il conto delle giornate che passarono. Non sentivo la fame, il freddo di novembre, non sentivo il tempo. Ero finita. Tutto ciò che di bello avevo avuto se ne era andato. In casa c’era ancora il profumo di Nila, e mi pareva di sentire lo scalpiccio dei passetti di Ece.
Fuori dalla finestra strombazzava un clacson. A Nila avrebbe dato fastidio. Si sarebbe arrabbiata, avrebbe bisbigliato qualcosa di cattivo contro l’autista e poi se ne sarebbe scordata. Il latte di Ece. Ah, no, Ece non c’era più. Avrei dovuto dirlo alla baby-sitter? No, non avevo energie adesso. Mi faceva male il petto. Ma che giorno era? Il telefono squillava, non mi importava rispondere. Se l’erano portata via. La mia Ece. E se Nila fosse stata uccisa? Se il dottore non avesse fatto bene il suo lavoro? Avevo le mani gonfie per il freddo. Non mi importava. La finestra doveva restare aperta, così i pensieri brutti potevano via. Engin Sengul. Ferit Yesil. Serkan Polat.
Ero in uno stato vegetativo. I miei pensieri si mescolavano e contorcevano nella mente senza darmi un attimo di pace. La sensazione di vuoto nel petto si faceva sempre più pressante, non mi lasciava respirare. Ad un certo punto, le mie gambe si addormentarono e non riuscii più a muoverle. Solo a quel punto mi risvegliai dal mio stato di coma cosciente e mi alzai da terra. Il latte sul piano cottura si era solidificato, creando una sorta di crosticina putrida. Guardai fuori dalla finestra, era notte. Accesi il mio cellulare e mi accorsi che erano le tre in punto del mattino di tre giorni dopo. Erano passati tre giorni da quando mi avevano portato via Ece. Mi sembravano passati tre minuti.
Uscii di casa, da sola, in piena notte. Girovagai un po' per la città, senza meta. Faceva freddo e non c’era anima viva, se non qualche ubriacone e qualche tossico dipendente steso a terra qua e là. Non so quanti chilometri percorsi, so solo che arrivai fino ad un piccolo ponte vicino al canale di Istanbul. Sotto scorreva un piccolo ruscello, che si rigettava nel mare a pochi metri di distanza. Mi sedetti a bordo ringhiera e rimasi lì ad ascoltare lo scrosciare dell’acqua. Era rilassante e confortante. Quell’acqua che scorreva nel buio sotto di me, le mie mani che gelide si aggrappavano al metallo forte, le mie gambe che pendevano nel vuoto. Immaginai se fossi caduta, e mi parve di sentire il richiamo del vuoto. Quell’acqua e quei metri che mi separavano da essa sembravano parlarmi e incitarmi al salto. Ero talmente triste che non sentivo più il peso della tristezza stessa. Mi mossi in avanti con le gambe, finché non penzolarono totalmente e rimasi aggrappata alla ringhiera solo con le mani. Se avessi mollato la presa, sarei caduta e avrei posto fine a tutto questo dolore. Respirai. Improvvisamente quel pensiero mi sollevò e mi sembrò quasi una cosa possibile smettere di provare dolore. Bastava solo che allentassi la presa.
Mentre mi accingevo a compiere il gesto più violento e imperdonabile della mia vita, forse un angelo, vestito da passante, si avvicinò a me e mi parlò.
<<Lo sai che è una cosa inutile, vero?>> Una voce calma ruppe il silenzio. Era una ragazza, giovane, ben vestita e con la chioma bionda.
<<Chi sei?>>
<<Che domanda è da fare mentre sei appesa ad una ringhiera?>> Rimasi in silenzio, mentre le mie mani iniziavano a tremare sotto il peso del mio corpo penzolante.
<<Tirati su. Parliamo un po'. Poi io me ne vado, se vuoi puoi tranquillamente gettarti dopo. Non ti fermerò. Ma dedicami due minuti. Due minuti di chiacchiere serene, così se vivrai me ne sarai grata, se sceglierai comunque di morire, avrai fatto due chiacchiere prima di rinunciare alla vita per sempre.>> La guardai. Assomigliava a Nila, era spaventosamente simile. Non so se in realtà avessi ancora una speranza di vivere, o se l’estrema somiglianza con Nila mi spinse ad accettare; so, però, che senza quella ragazza, oggi Ece avrebbe perso entrambe le sue madri. Mi tirai su e mi sedetti a parlare con lei. Era dolce, tranquilla, come se quello che aveva appena visto non la turbasse.
<<Come ti chiami?>>
<<Hande>>
<<Hai un bel nome.>>
<<Tu come ti chiami?>>
<<Non è importante. Sei importante tu, non io. Allora dimmi, cosa ti è successo?>>
<<La persona che ho più amato in tutta la mia vita è morta. Sua figlia, che era per me la persona più importante che mi era rimasta, è stata portata via dai servizi sociali. Sono sola a questo mondo. La mia famiglia è lontana e niente ha più senso senza di loro.>>
<<Sei sicura che non ci sia una soluzione… Se non per Nila, almeno per Ece?>>
<<Io non ti ho detto come si chiamavano loro due, come fai a saperlo?>>
<<L’hai detto prima. E poi io so tutto.>> Disse, sorridendo, in modo molle e quieto. Ero sicura di non aver fatto il loro nome in precedenza, ma non me ne curai: avevo capito cosa stava accadendo.
<<Non credo ci sia nulla da fare, la donna dei servizi ha detto che un uomo li ha chiamati e che è già disposto ad adott…>> Mi bloccai. Mi venne come un’illuminazione. <<Aspetta… L’unico uomo che potrebbe… Vince è da escludere, non sa nemmeno della morte di Nila… Claudius è da escludere anche lui, non adotterebbe mai un figlio, specialmente mio… Serkan Polat. Serkan è l’unico uomo che conosco che sa di Ece e che potrebbe aver fatto la segnalazione.>>
<<Vedo che sei sulla strada giusta.>> Sorrise. Forse c’era ancora qualche speranza di riprendermi Ece. Scattai in piedi e anche la ragazza fece lo stesso.
<<Sei un angelo! Grazie, grazie!>> Le dissi, mentre scappavo già via. Iniziai a correre mentre un’ondata di adrenalina mi investiva. Lei mi salutò e mi ringraziò a sua volta. Quando mi voltai di nuovo, dopo qualche secondo, per darle un’ultima occhiata, lei era già svanita nel nulla. Non so cosa successe quella sera, se fu tutto un’allucinazione, o se fu veramente un angelo a salvarmi, so solo che da quel giorno non provai mai più a fare un gesto del genere.
Mi misi subito all’azione mentre correvo verso casa. Chiamai la collega del pronto soccorso del turno di notte, le chiesi numero telefonico e indirizzo di Serkan Polat e, dopo diverse resistenze, mi diede ciò che le avevo chiesto. Tornai a casa, salii in macchina e mi diressi all’indirizzo segnato. Arrivai a casa di Polat che era l’alba.
Serkan abitava in una villetta singola in periferia, aveva un bel giardino curato e un’abitazione nuova di zecca, sembrava essere appena stata costruita. Suonai diverse volte al citofono, con insistenza, ma non mi rispose nessuno. Così, selvaggia e arrabbiata, mi arrampicai su per il cancello e scavalcai. Probabilmente Serkan aveva istallate delle telecamere o dei sensori, perché appena mi arrampicai sul cancello, una sirena iniziò a squillare rompendo la quiete dell’alba che colorava il cielo. Non mi feci intimorire e corsi verso la porta di ingresso. Premetti il campanello con tale furia che quasi mi sembrò di romperlo. Mentre suonavo il campanello, bussavo alla porta, e contemporaneamente la sirena all’esterno continuava a strillare. Finalmente, dopo qualche minuto, Serkan mi aprì. Era assonnato, sconvolto e terrorizzato. Teneva in mano, pronta a colpire, una mazza da golf. Una mazza da golf? Era questa l’arma più pericolosa che era riuscito a trovare per aggredire un eventuale ladro? Mi guardò, con gli occhi sbarrati. Rimanemmo a fissarci per qualche secondo, poi si rilassò e lasciò andare l’arma terrificante. La mazza cadendo emise un rumore metallico che si andò ad aggiungere al resto della confusione data dalle sirene. Dalla tasca del suo completo da notte in pura seta color cobalto prese un piccolo telecomando, con cui riuscì a spegnere le sirene.
<<Che cosa diavolo vuoi dalla mia vita?! Sono le sei del mattino, vai via pazza!>>
Era assolutamente ridicolo con quel completo.
<<Sei stato tu a chiamare i servizi sociali?>>
<<Mi sembra ovvio.>>
<<Ti sembra...? Ti sembra ovvio! Tu hai idea di quello che hai fatto? Hai strappato una bambina di neanche sei anni all’unica persona che le era rimasta! In questo momento sarà in un orfanotrofio, in un lettino scomodo e infestato dalle pulci, in attesa che il mostro che l’ha strappata via due volte dalle sue madri la venga a prendere per farle vivere una vita infelice e traumatica!>>
<<Il mostro, come dici tu, ha solo cercato di salvare quella bambina da una pazza psicopatica che scavalca i cancelli alle sei del mattino!>> Mi vomitò addosso quelle parole, con tutta la furia e il disprezzo che aveva nei miei confronti.
<<E tu che potere hai? Tu chi sei per rovinare la vita a due persone?>> Dissi, stringendo così forte i pugni da quasi rompermi le mani. In quel momento, sentii qualcosa di liquido e umido scolarmi addosso dalle mani. Prima ancora che potessi vedere cosa fosse, dallo sguardo disgustato di Serkan capii cosa fosse: era sangue. Qualche ora prima, quando avevo tentato di porre fine alla mia vita ed ero rimasta aggrappata alla ringhiera, mi ero provocata delle abrasioni che adesso, con la furia della litigata, mi si erano definitivamente aperte e stavano sanguinando di dolore.
<<Che ti sei fatta?>> Chiese sbigottito e impressionato dal sangue. Allungò una mano per toccare le mie ferite, ma io lo respinsi brutalmente.
<<Non voglio essere toccata da uno come te. Preferisco sanguinare. Dimmi, allora, Serkan Polat: chi sei? Cosa vuoi da noi?>>
Ci fu un attimo di silenzio.
<<Io sono il padre biologico di Ece.>> Mi sentii mancare. Non era possibile. Mi stava mentendo.
<<Menti.>>
<<Non mento, sono l’ex fidanzato di Nila, nonché padre di Ece. A quanto vedo, non eravate nemmeno così tanto amiche: non ti ha nemmeno svelato il nome del padre della bambina che tu definisci quasi come figlia tua. Evidentemente il vostro rapporto non era abbastanza profondo per…>> Gli mollai uno schiaffo con le mani fatte di sangue.
<<Tu! Tu non hai nessun diritto verso di noi, tu non sei nessuno per giudicare il rapporto mio e di Nila. E puoi anche essere suo padre in genetica, ma quella che chiama mamma sono io!>>
<<Non conta più nulla ormai. Fra una settimana la bambina verrà a vivere con me e si dimenticherà per sempre di te.>> Questa frase fu, in assoluto, la cosa che mi ferì di più in tutta la mia vita. Non volevo che Ece si scordasse di me. Non l’avrei sopportato.
<<Vedremo chi la spunta, Serkan Polat. Ti odio con ogni centimetro del mio corpo, ogni battito del mio cuore sprigiona odio per te, ogni tuo respiro è motivo di fastidio per me. Non mi fermerò finché la tua vita sarà rovinata, esattamente come tu hai spezzato quella di Nila, distrutto quella di Ece e annullato la mia.>>
<<Ti odio con tutto me stesso, Hande Demir. Sei solo una povera folle, una cavalletta impazzita che saltella di qua e di là a disseminare panico. Alla fine la spunterò io.>>
Mi urlava contro questo mentre andavo via, e scavalcavo di nuovo il cancello, come avevo fatto per entrare.
Che la mia battaglia contro Serkan Polat avesse inizio.
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Fra le pieghe dell'odio
General FictionHande Demir è un medico legale di ventisette anni, convive con la sua migliore amica Nila da tre anni e crescono insieme la figlia di quest'ultima, dopo che suo padre l'ha abbandonata. La loro vita sembra andare a gonfie vele, se non fosse che la lo...