Avete presente quando la vostra vita va alla grande, siete realizzate economicamente e lavorativamente, siete indipendenti e sembra che niente e nessuno possa turbarvi? Ecco, io ero esattamente in quel momento della mia vita. Avevo da poco iniziato la specializzazione come medico legale in un importante ospedale di Istanbul, ero riuscita subito ad ambientarmi e venivo rispettata da tutti i miei colleghi. Avevo sempre avuto un’indole molto particolare: la mia personalità piuttosto complicata mi aveva sempre impedito di fare grandi amicizie. Sì, nella mia vita c’erano stati degli amici importanti, ma erano state persone passeggere, che alla fine avevo lasciato indietro abbastanza facilmente. Non avevo pianto mai per nessuno nella mia vita e nessuno era rimasto per sempre. Credevo che il concetto di “per sempre” non esistesse, e che le persone stringessero legami di amicizia per convenienza, per circostanza oppure semplicemente per noia. Questa mia costante sfiducia nel genere umano mi aveva portata a venticinque anni a non avere amici veri e a passare tanto tempo concentrata sul lavoro e sulla mia realizzazione personale. In un momento della mia vita in cui l’affetto mancava, ma tutto il resto andava a gonfie vele, arrivò una ragazza, più giovane di me, una semplice donna delle pulizie a sconvolgere ogni equilibrio della mia vita, segnando per sempre la mia esistenza. Io, una Dottoressa imperturbabile e irraggiungibile, venni distrutta con uno sguardo da quella ragazza così umile e semplice. Ma fu la distruzione più bella che mi potesse accadere.
Ero in corsia, puntualissima come sempre. Quel giorno avevo in programma quattro autopsie, due la mattina e due il pomeriggio, insieme al mio mentore, un ragazzo all’ultimo anno di specializzazione. Quella mattina era stranamente in ritardo, così, decisi di aspettare direttamente in sala autoptica, in modo da prepararmi e da cominciare subito a lavorare quando sarebbe arrivato. Entrai nel corridoio principale, erano le sette e trentadue minuti, non c’era nessuno in giro per quei reparti, se non una ragazza, bionda, piegata in due sul pavimento a pulire. Non l’avevo mai vista prima in giro, la ragazza che solitamente si occupava delle pulizie in quell’area dell’ospedale non c’era quel giorno. Non ci feci troppo caso e la superai, ma una vocina da dietro mi chiamò, e mi dovetti voltare.
<<Mi scusi Dottoressa, lei lavora là dentro?>> Mi chiese, indicando la sala autoptica in cui stavo per entrare prima che mi bloccasse.
<<Sì. Le serve qualcosa?>> Le chiesi, cordialmente, sperando che mi rispondesse di no; non avevo tempo da perdere e nemmeno voglia di conversare.
<<Sono nuova di questo reparto. Sto sostituendo la mia collega, è incinta ed è in maternità.>>
<<Oh, mi fa piacere per lei. Vorrà dire che come minimo ci vedremo ogni mattina per i prossimi nove mesi.>> Sorrisi e mi voltai, e feci per entrare nella sala, ma lei mi bloccò nuovamente.
<<Mi scusi ancora se la disturbo ma… Avrei un favore da chiederle.>>
Rimase in silenzio, come se si vergognasse a farmi la sua richiesta. Di solito gli addetti alle pulizie non si fermavano a parlare con noi medici, né tanto meno chiedevano favori. La cosa stuzzicò la mia curiosità, e decisi di aiutarla. Guardava la porta della sala autoptica, e intuii la sua richiesta.
<<Vuoi vedere quello che c’è là dentro, vero?>> Le si illuminarono gli occhi e io risi. Era così carina, magra, con la pelle chiarissima e gli occhi celesti, i capelli biondi e lisci e un sorriso luminosissimo. Sembrava una bambina a cui stavano regalando una caramella. <<E perché mai vorresti vedere un morto?>> Le chiesi, attirata da quel personaggio così strano.
<<Sa, volevo tanto studiare e fare l’Università per diventare un medico legale nella vita ma… A volte il destino ha piani diversi per noi. Non potevo non cogliere l’occasione adesso che sono qui. Mi piacerebbe moltissimo se potessi vedere la sala da vicino>>
<<Non potrei farlo teoricamente ma… Sono le sette meno venti, penso che nessuno si accorgerà di questa marachella. Come ti chiami?>>
<<Nilufer Yildiz, Dottoressa.>>
<<Io sono Hande Demir, puoi darmi del tu e chiamarmi semplicemente Hande.>>
<<D’accordo Hande. Tu puoi chiamarmi come ti pare>> Disse ridendo, mentre si alzava da terra e mollava lo strofinaccio con cui stava pulendo.
<<Va bene, allora ti chiamerò Nila, Nilufer mi sembra troppo... “serio”.>> Ci sorridemmo, ed entrammo nella sala. Da quel momento, tutto fu diverso per me, e la mia vita ebbe tutto un altro significato. È strano come due persone che si conoscono in una circostanza del genere diventino amiche. I medici all’ospedale snobbavo pesantemente tutti coloro che non fossero medici o tutt’al più infermieri, e il fatto che io e lei avessimo iniziato questa conversazione fu inusuale e per certi versi persino fuori luogo. Fece strano a molti il fatto che io fossi così diffidente con tutti e che invece avessi stretto un legame con una semplice ragazza delle pulizie. Io e lei però avevamo avuto da subito un feeling particolare e decisi che quella sensazione non poteva essere sprecata così. Da quella gita in sala autoptica nacque un legame vero e sincero e, da quel giorno, io e Nila non ci saremmo mai più separate.
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Fra le pieghe dell'odio
General FictionHande Demir è un medico legale di ventisette anni, convive con la sua migliore amica Nila da tre anni e crescono insieme la figlia di quest'ultima, dopo che suo padre l'ha abbandonata. La loro vita sembra andare a gonfie vele, se non fosse che la lo...