Capitolo 3

13 2 0
                                    

 
 
La mattina successiva mi svegliai distrutta. Non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte, e anche quando mi ero avvicinata ad uno stato di dormiveglia, pensieri orribili mi avevano assalito la mente, sentivo il panico crescere nel petto e gli occhi tornavano a sbarrarsi vigili, attenti. Appena sveglia andai in bagno e mi sciacquai il viso, Ece dormiva ancora. Avevo due borse viola sotto gli occhi, il viso sciupato, le rughe visibili. Mi sentii un’ottantenne, non una ventisettenne. Svegliai dolcemente Ece portandole la colazione a letto. Ci misi mezz’ora solo per scaldare del latte e impilare due biscotti in un vassoio. Ero vuota, senza energie e spaventata. Ece era turbata, scura in viso, mangiava in silenzio, a piccoli bocconi, senza strafare. Le chiesi se preferisse andare a scuola o rimanere dalla baby-sitter: volevo che fosse lei a decidere cosa fare, non volevo imporle scelte che le avrebbero potuto fare più male di quello che già stava provando. Mi disse di voler andare a scuola, per fare una preghiera per la guarigione della sua mamma con i suoi compagni. Feci fatica a trattenere le lacrime.
Lasciai Ece a scuola come mi aveva chiesto e corsi in ospedale. Mi ero presa un permesso per poter stare vicino a Nila tutto il giorno, così da assisterla a tempo pieno. Entrai nella stanza dove giaceva in coma, c’era solo lei e l’unico rumore che tagliava il silenzio era il battito del suo cuore che pulsava attraverso i macchinari. La guardai, e lentamente mi avvinai: era come se avessi paura di svegliarla. Mi sedetti di fianco a lei, le accarezzai la mano e le parlai dolcemente. Le dissi di Ece, che era tranquilla e che stava bene, che aveva bevuto tutto il latte che le avevo preparato, ma non aveva finito i biscotti. Le dissi che i compagni stavano pregando per lei. Le dissi tutto quello che sentivo per lei. Le promisi che una volta ristabilita l’avrei portata a casa dello zio Emre e lì ci saremmo prese delle belle ferie per stare tutte e tre insieme, tranquille, in riva al mare. Lei non rispondeva, ma notavo dei leggerissimi cambiamenti nelle sue espressioni, movimenti impercettibili dei muscoli, che mi facevano percepire le sue emozioni. Mi dissi che stavo solo sognando e che erano tutte allucinazioni, finché non lo dissi ad alta voce e lei mi strinse leggermente la mano, con la forza di una formica.
Lei c’era.
Entrarono decine di infermieri e medici nell’arco delle ore che trascorsi al suo fianco. Tutti mi dicevano che era un bene che fosse in coma, perché probabilmente non provava dolore, e che avrebbe potuto subire l’operazione alla schiena in maniera più agevole in questo modo.
Chiesi di poter parlare con il medico che avrebbe eseguito questa operazione, e l’infermiera mi fissò un appuntamento per il pomeriggio stesso.
La baby-sitter di Ece, essendo a conoscenza della situazione, si era offerta di occuparsi di lei per il pomeriggio, per permettermi di stare con Nila. Chiamai la piccola ogni ora, per sapere se stesse bene. La misi in viva-voce, cosicché Nila potesse sentirla. Mi sembrò di percepire un leggerissimo sorriso ogni volta che udiva la voce della sua bambina. Sapevo che le persone in coma erano, in qualche modo, in grado di percepire l'esterno. Molte persone vivono dentro sogni influenzati da ciò che succede nella realtà, e mi piace pensare che Nila in quel momento si trovasse in un bel posto, magari in riva al mare, insieme alla sua piccola, nei suoi sogni. Non mi scollai da lei finché non arrivò l'ora dell'appuntamento con il primario. Mi diressi al bar dell'ospedale, dove mi aspettava il Dottor Engin Sengul, primario di Neurochirurgia. Era un uomo molto alto, circa un metro e novanta, e aveva i capelli brizzolati. Intuii dalle sue rughe intorno agli occhi che avesse superato abbondantemente la cinquantina e andasse per la sessantina, ma comunque restava un bell'uomo. Era snello, teneva le spalle tese e aperte, portando la sua età e il suo titolo con fierezza. Aveva gli occhi azzurro ghiaccio, vivi e specchiati. Quando lo raggiunsi, stava parlando affabilmente con la signora del bar, sorseggiando di tanto in tanto il suo caffè al ginseng. Non potevo immaginare che una persona con un aspetto così affidabile si sarebbe rivelata, invece, l’origine di tutti i miei guai.
Mi avvicinai a piccoli passi e mi presentai. Lavoravamo nello stesso ospedale da anni, eppure non ci eravamo mai incontrati, nemmeno per sbaglio fra i corridoi. Mi strinse la mano velocemente, quasi come se non volesse afferrarla e passammo subito al punto.
<<Ho attentamente visionato le TAC e le risonanze della signorina Yildiz, ha fatto tutti gli esami necessari, è stabile. La ritengo idonea all’operazione.>> Tirai un sospiro di sollievo.
<<E… Ci sono buone probabilità di successo?>>
<<Il successo è praticamente garantito, Dottoressa Demir. E’ un’operazione di routine. Dobbiamo prelevare la vertebra rotta e saldare insieme le altre due vertebre per occuparne il posto. Può sembrare una cosa complicata, ma non lo è. Non si preoccupi, è in ottime mani.>>
<<Sono davvero contenta che sia lei ad occuparsi di Nilufer.>>
<<Quando i miei colleghi del pronto soccorso mi hanno parlato di questa paziente ho deciso subito che sarei stato io ad operarla. Il suo incidente è stato straziante e merita di ritornare a camminare e a muoversi come se nulla fosse accaduto.>> Sorrisi. Sembrava davvero convinto di quello che stava dicendo. Mi parlava in tono sicuro e esperto, era certo che Nila sarebbe tornata come nuova.
Mi fidai.
 
 
 
 
Il giorno dopo, l’intervento iniziò alle otto del mattino. Salutai per l’ultima volta Nila, prima di vederla scomparire in sala operatoria. Attesi nella sala d’aspetto, tremando. L’intervento sarebbe durato quattro ore e sapevo già che quelle quattro ore sarebbero state le più lunghe della mia vita. Sbattevo i piedi, con movimenti nervosi e veloci, cercando di sfogare l’ansia. Stringevo i pugni sulle cosce, tirando la stoffa dei miei jeans. Seguivo ogni ticchettio dell’orologio con la mente, e li contavo, per rimanere calma. Inaspettatamente, mentre osservavo maniacalmente l’orologio, sentii un altro ticchettio: erano i passi di un uomo, che si avvicinava elegantemente vestito, con le scarpe laccate e un completo blu addosso. Era Serkan Polat. Distolsi il mio sguardo dall’orologio e roteai gli occhi. Ci mancava solo lui.
<<Cosa ci fai qui?>>
<<Aspetto che Nilufer esca dalla sala operatoria, voglio sapere come sta.>>
<<Non farmi ridere. Torna a casa.>> Dissi, sbeffeggiandolo.
<<Se mi siedo accanto a te mi aggredisci?>>
<<Se non spari cazzate come quella di poco fa, no. In genere non mordo.>> Si sedette di fianco a me, lasciando però un posto vuoto a separarci. Ridacchiai. Sembrava davvero spaventato, ma ben presto mi resi conto che non era come pensavo. Attesi quattro ore seduta vicino a Serkan e non ci scambiammo nemmeno una parola. Osservava il pavimento, in silenzio, con lo sguardo fisso. Io invece non stavo un attimo ferma: camminavo avanti e indietro, avanti e indietro. Le suole delle scarpe si consumarono a furia di camminare e mi ritrovai completamente sudata e distrutta. Serkan invece, era immobile. Rimase fermo come una statua per quattro ore, sempre nella stessa posizione: busto piegato in avanti, gomiti che poggiavano sulle ginocchia, mani giunte, sguardo fisso a terra. Non si degnò di spendere una parola per Nilufer, eppure lo percepivo preoccupato quanto me, come se la conoscesse da sempre, come se dentro quella sala aperta in due ci fosse una sua cara amica di vecchia data. Non poteva essere quella l’apprensione di un uomo che si sente in colpa per aver investito un’altra persona, no: in quel momento, capii che Serkan Polat aveva moltissime cose da dire, e tantissime altre da nascondere.
Le ore passarono da quattro a cinque. Da cinque a sei. Da sei a sette, otto, nove. Poi, finalmente, quando le mie speranze si erano quasi esaurite, Sengul entrò nella stanza. Aveva il viso spento, le mani giunte dietro la schiena, lo sguardo incollato al pavimento. Lo raggiunsi, quasi correndo, e Serkan si mosse finalmente dal suo letargo e si alzò anche lui. Mi piantai davanti al dottore, e attesi una sua parola, pendevo dalle sue labbra.
<<Dottoressa Hande… L’operazione è stata più complicata del previsto. Nila aveva perso troppo sangue in precedenza e aveva troppe ferite aperte. Era senza forze, il cuore non ha retto. Alle 18.08, Nilufer Yildiz è deceduta per arresto cardiaco. Abbiamo provato a rianimarla ma tutto è stato vano. Condoglianze, Dottoressa.>>
 
Impazzii.
 
Di quel momento ricordo solo Sengul che correva a chiamare rinforzi, mentre Serkan si era accasciato a terra, con le mani fra i capelli rossicci e il volto rigato dalle lacrime. Io gridai, mi contorsi e distrussi tutto quello che avevo intorno. Sradicai una sedia dal pavimento della sala d’aspetto, spaccai a pugni il vetro dell’estintore e strappai tutti i fogli che c’erano appesi nei muri del corridoio. Poi tre uomini accorsero insieme ad un’infermiera, mi bloccarono, tenendomi per le braccia. Io provai a morderli più volte, mentre gridavo frasi incomprensibili e sentivo dentro di me il mondo crollarmi addosso. Poi sentii la puntura di un ago sul collo, e nemmeno il tempo di voltarmi a capire cosa mi avessero iniettato che ero già svenuta, per terra. Prima di addormentarmi, con il viso schiacciato sul pavimento gelido, incrociai lo sguardo di Serkan, lo sguardo più vuoto che avessi mai visto.
Poi il buio.
 
 
Mi risvegliai in un letto d’ospedale, ricoverata. Che deja-vù. Avevo le mani entrambe fasciate, e le garze erano zuppe di sangue, probabilmente dovuto ai vetri che avevo spaccato durante quel raptus d’ira. Sprofondai nel letto e mi strofinai gli occhi. Nila era morta. Venticinque anni, e Nila era morta. La ragazza con cui avevo convissuto per quasi tre anni, la ragazza così bella, giovane e felice che tanto mi era entrata nel cuore adesso non c’era più. Non potevo immaginare come sarebbe stata la mia vita senza di lei. Un fiume di lacrime sgorgò dalle mie guance inarrestabile, e la mia mente iniziò a viaggiare e a visualizzare quello che sarebbe stato senza di lei. Come un fulmine, mi balenò in mente la figura di Ece, bambina ormai di fatto rimasta orfana, che avrebbe dovuto affrontare, a nemmeno sei anni, la perdita del suo unico genitore. Come avrei fatto a dirglielo? Cosa ne sarebbe stato di lei? Mandarla in adozione affidandola ai servizi sociali non era un’opzione; Nila non aveva parenti e nessuno di affidabile che si potesse occupare di lei; cercare il padre biologico? Giammai. Chissà dove si stava nascondendo quello stronzo pur di non prendersi cura di lei. In quel momento, capii che se Nila fosse stata in vita avrebbe affidato la piccola proprio a me, e che ad Ece non restava nessuno al mondo se non io. Nella vita avevo sempre avuto un obiettivo: fare carriera e non avere figli. Prendere Ece e crescerla sarebbe stato come diventare una sorta di madre adottiva per lei, e questo andava assolutamente in contrasto con la mia persona. Ma amavo sua madre e quella bambina come non avevo mai amato nessuno in vita mia, e quindi mi sentii in dovere di crescerla e tenerla con me. Decisi che da quel giorno, a prendermi cura di Ece sarei stata io.
Mi alzai dal letto d’ospedale e andai in bagno. Mi sciacquai il volto e cercai di tornare a respirare normalmente. Solo allora, una volta in piedi, mi resi conto che doveva essermi stata somministrata una quantità tale di tranquillanti e psicofarmaci da rendermi totalmente scema. Vedevo tutto muoversi lento, e sembrava come se dentro di me il dolore fosse attenuato rispetto a quello che avevo provato prima. Mi diressi con le mie stesse gambe dalla prima infermiera che incontrai in corridoio e mi confermò il mio sospetto: avevo in corpo la quantità di tranquillanti e psicofarmaci che si dà ai soldati in guerra. La mia crisi di prima era stata talmente violenta che avevano dovuto sedarmi il più possibile, per evitare che uscissi di nuovo fuori di testa. I miei pensieri erano lenti, e sembrava che stessi vivendo tutto come una persona esterna, come se tutto fosse al rallentatore nella scena di un film al cinema.
Nonostante le ferite alle mani e la mia evidente condizione psicologica, andai dal medico che si era preso a carico il mio caso e gli ordinai di dimettermi. Ovviamente si rifiutò, ma quando minacciai di ricominciare a sbraitare, mi assecondò e firmò le dimissioni.
Mi diressi subito dalla baby-sitter di Ece, la misi al corrente di tutto e ripresi con me la bambina.
Di certo non ero lucida, ero sotto effetto di farmaci e non ero nemmeno nelle condizioni di prendere decisioni, ma il mio istinto mi disse subito che nella morte della mia amica c’era qualcosa di non detto e qualcosa che doveva per forza essere andato storto. Ancora prima di tornare a casa e di informare Ece sull’accaduto, andai alla centrale di polizia più vicina e denunciai l’ospedale. Fu immediatamente aperto un fascicolo e mi venne assicurato che sarebbero state condotte delle indagini in merito. Non ero del tutto convinta della versione che mi aveva dato Sengul e, seppure mi convenisse credere, per non aumentare il dolore, che fosse morta per cause naturali e non per mano di qualcuno, decisi che in ogni caso dovevo andare a fondo nella ricerca della chiarezza, così da confermare la versione di Sengul oppure scoprire novità.
Ece rimase in silenzio per tutto il viaggio. Aveva probabilmente già intuito quello che era successo, ma sembrava tranquilla. I bambini hanno questo straordinario potere di decifrare ogni emozione sul volto di un adulto, e perfino di prevedere gli eventi. Lei era una bambina particolarmente sensibile, e aveva chiaramente intuito la situazione. Le comprai un gelato, la feci sedere su una panchina nel lungomare di Istanbul e mi feci forza. Non sapevo nemmeno da dove cominciare.
<<Ece, la vedi quella stella laggiù?>> Dissi, puntando il dito al cielo ed indicando Venere.
Venere. Quella notte la Stella della Sera risplendeva particolarmente, come quella notte di tre anni prima a casa dello zio Emre, in cui io e Nila avevamo definitivamente consolidato la nostra amicizia in riva al mare, illuminate dalla luce candida di quella stella.
<<La vedo, Mami.>>
<<Ecco… La mamma… Oggi ha raggiunto quella stella.>> Sussurrai, con la voce tremolante, senza riuscire a guardarla negli occhi, mentre trattenevo le lacrime.
<<E’ diventata una stella?>>
<<Sì amore mio, sì: la mamma è diventata una stella, la stella più luminosa di tutta la notte. Noi purtroppo non la vedremo più la mamma. Però non se n’è andata, no no: lei ci osserva da lassù, e tutte le volte che vorrai parlarle lei sarà lì ad ascoltarti. Lei ti vedrà crescere, andare a scuola, trovarti il fidanzatino, diplomarti, andare all’Università e chissà…>> Non riuscii a trattenere le lacrime e a finire la frase. Ece mi osservava con i suoi occhioni neri e restava zitta, immobile.
<<Allora è sulle stelle che vanno le persone morte?>> Mi chiese, spiazzandomi. Lei aveva capito tutto, e stava affrontando quel lutto con una serenità sconcertante. I bambini erano qualcosa di prezioso.
<<Sì, piccola.>>
<<Quando sarò grande farò l’astronauta.>>
<<L’astronauta?>> Chiesi, asciugandomi le lacrime con la manica del maglione.
<<Sì, così potrò andare a trovare la mamma fra le stelle!>> Risi, in mezzo alle lacrime. La abbracciai, e le dissi che era una grande idea. A cinque anni e mezzo non ti rendi conto che tua mamma è morta e che non la vedrai mai più. Avrebbe capito tutto meglio più avanti, e avrebbe avuto modo di elaborare il lutto quando sarebbe stata più grande. Per il momento, quella dell’astronauta mi sembrò la cosa migliore.
<<Tu invece non vai nelle stelle, vero Mami?>>
<<No, io resto qui e non mi muovo. Va bene, piccola?>> Lei annuii e finii il gelato.
Da lì in poi sarebbe iniziato un nuovo capitolo della mia vita, doloroso e asfissiante.

Fra le pieghe dell'odio Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora