L’inizio della convivenza fu traumatico.
A Serkan fu lasciata la stanza di Nila, mentre io ed Ece continuammo ad utilizzare le nostre solite stanze. Lui non si lamentò molto, accettò tutte le condizioni – ovvero che ognuno avrebbe fatto le lavatrici per conto proprio, che c’erano dei turni per cucinare, per lavare, per stendere, che bisognava tenere pulita la casa e non lasciare roba in giro, che non poteva apportare modifiche alla casa in nessun modo, nemmeno chiedendo il permesso e poteva portare solo il necessario con sé – e riuscimmo perfino a trovare una buona postazione per il suo cane Romolo – che, già il nome, rendeva facilmente intuibile le manie di protagonismo e grandezza del padrone -. Romolo era un pastore tedesco di un anno, un cucciolo dolcissimo, di razza pura. Il cane fu l’unica cosa di Serkan che accettai di buon grado. Per il resto, fu tutto un disastro. In casa mia c’era uno sconosciuto, che si era introdotto nella mia vita nel periodo più buio che avessi mai vissuto e, non solo, aveva stravolto tutto, decidendo di accettare sua figlia dopo cinque anni in cui l’aveva totalmente ignorata. Lui lavorava tutto il giorno e io non ero da meno: tentammo comunque di organizzarci, in modo da doverci incontrare il meno possibile, e in modo da avere degli orari separati per passare del tempo con la bambina. Contendercela era l’ultima cosa che volevamo. Almeno su questo, eravamo di comune accordo. Non sapevo che lavoro facesse, non mi interessava più di tanto, sapevo solo il necessario: lavorava in un’agenzia di cui era capo, aveva degli orari flessibili e poteva scegliere il suo turno di lavoro in base al mio in tranquillità. La sua spalla destra, una certa Sylvia, si sarebbe occupata di tutto al posto suo. Se io lavoravo di mattina, lui lavorava di pomeriggio e viceversa. Gli unici momenti in cui ci incontravamo erano la mattina e la sera. A stento ci parlavamo per il necessario, e anche in quelle pochissime occasioni, eravamo pronti a buttarci veleno addosso a vicenda. Io lo odiavo per quello che aveva fatto a Nila e per quello che stava facendo a noi adesso, lui mi odiava per non avergli lasciato sua figlia tutta per sé. Ece non era molto serena in tutto ciò. Mi diceva spesso che si sentiva a disagio, e che quando stava con lui non vedeva l’ora che tornassi a casa per fare il cambio. Serkan non si comportava male con lei, semplicemente erano due sconosciuti che stavano giocando a fare il padre e la figlia. Nonostante lo disprezzassi e da un lato, non lo nego, mi faceva piacere sapere di essere la preferita di Ece, tentavo comunque di incoraggiarla ad accettarlo e di farle instaurare un rapporto decente con quello che ben presto sarebbe diventato il suo unico genitore. Quella situazione, purtroppo e per fortuna, era solo temporanea, ed Ece una volta adattatasi al padre sarebbe andata a vivere con lui definitivamente, e per noi sarebbero rimaste solo delle visite sporadiche. Questa dura realtà mi spezzava il cuore, e sapere che Serkan sarebbe diventato la sua figura genitoriale principale, che Ece crescendo si sarebbe dimenticata di Nila e avrebbe considerato me come un’amica di famiglia che viene a far visita di tanto in tanto, mi uccideva. Ma, in qualche modo, dovevo accettarlo. In fondo non ero la madre biologica di Ece, non avevo nessun diritto su di lei, e purtroppo per la legge vince la genetica sull’Amore. Volevo che si trovasse bene, per quanto possibile, con Serkan, così da non subire del tutto un trauma, che si sarebbe andato ad aggiungere alla già disperata perdita della madre. Le parlavo spesso di Nila e di come fosse diventata una stella: fantasticavamo insieme su come poterla raggiungere, e guardavamo il cielo, sognando di vederla. Serkan si estraniava sempre da questi momenti: ogni qual volta Ece parlava con me, lui si faceva da parte, quasi scompariva, e quando si toccava l’argomento Nila addirittura andava via. Non avevo approfondito il loro rapporto, né mi interessava sapere il perché l’avesse abbandonata: non volevo sentire ragioni da un uomo del genere.
Io sono un’attenta osservatrice, e osservarlo era diventata la mia attività preferita: era sempre rigido, camminava con una postura impeccabile, non abbassava mai lo sguardo e non sorrideva assolutamente mai. Era sempre serio, impassibile, ed era imbranato con i bambini ancor di più di quanto non fossi io. Non aveva idea di come prendersi cura di una bambina e di come giocare con lei. Spesso, quando guardavano la televisione assieme, le faceva guadare documentari storici, programmi di fantascienza e film dell’orrore. Tassativamente, la piccola iniziava a piangere, e lui si agitava, non capendo cosa stesse sbagliando. Non la accarezzava mai, non le mostrava mai il minimo affetto fisico, ma dai suoi comportamenti impacciati si capiva che stava provando a fare del suo meglio, senza successo. Era paziente, questo glielo si doveva riconoscere. Non si innervosiva se la piccola preferiva me a lui, non le chiedeva di accettarlo, e non pretendeva che Ece lo facesse. Attendeva, facendo del suo meglio, che il suo rapporto con sua figlia mettesse radici e che si costruisse pian piano. Percepivo, però, della sofferenza in lui ogni volta che la piccola si avvicinava a me. Era come se desiderasse questo rapporto tutto per sé, era invidioso della fiducia che c’era fra di noi e dell’intesa che avevamo costruito.
Per quanto riguarda me e lui, eravamo due fantasmi dentro quella casa. Se Ece era a scuola o dalla baby-sitter oppure dormiva, io e lui ci rintanavamo nelle nostre stanze e uscivamo solo all’ora di cena o di pranzo. Non mangiavamo tutti nello stesso tavolo: Serkan, con la scusa di dare da mangiare a Romolo, usciva in giardino e pranzava insieme al cane seduto nei tavolini esterni. Io ed Ece mangiavamo assieme, come avevamo sempre fatto.
La situazione era piuttosto pesante per me. Non mi sentivo a casa mia, sentivo la mia privacy e la mia intimità invasa e privata da uno sconosciuto. Non giravo più in casa in intimo come avevo sempre fatto con Nila, o con Claudius, o con Vince. Uscivo sempre perfettamente vestita dalla mia stanza, talvolta perfino truccata. Non volevo che Serkan mi vedesse nelle mie debolezze, non volevo che vedesse la mia pelle imperfetta da struccata o i miei capelli ricci selvaggi appena uscita dalla doccia. Non giravo in casa nemmeno in ciabatte, perché mi sentivo in imbarazzo con lui in giro. Stavo sempre con le scarpe da tennis e con delle tute nuove e accettabili. Avevo accantonato il mio solito abbigliamento casalingo, fatto da ciabatte, felpe extra-large, intimo, capelli spettinati e occhiali da lettura per riposare la vista. D’altronde, lui non era da meno. Completo elegante ventiquattr’ore su ventiquattro, capelli sempre perfettamente ordinati e ricoperti di gel, orologio costoso al polso e cravattino immancabile. Era quasi ridicolo il suo girare in una casa al mare sempre vestito come se stesse per andare ad un matrimonio.
Ben presto, la mancanza di Nila e la presenza infausta di Serkan si fecero sentire in tutto il loro peso. Avevo sempre sofferto di insonnia, ma in quel periodo toccai veramente il fondo. Dormivo al massimo un’ora a notte, arrivavo al lavoro totalmente esausta, non ero nemmeno in grado di eseguire le autopsie, era tutto sulle spalle di Yesil. Iniziai a soffrire di attacchi di panico, che riuscivo a calmare solo con lunghe passeggiate da sola, in mezzo alla natura. Ogni minimo problema nella mia vita, che fosse un guasto alla macchina, un bicchiere rotto o semplicemente un collega che non mi salutava, mi creava un attacco di panico. Il mio equilibrio era precario, quasi inesistente, ed era diventato impossibile nascondere le mie sofferenze agli altri. Cercavo di auto-controllarmi il più possibile, soprattutto davanti a Serkan, perché non volevo che si accorgesse della mia instabilità, avevo paura che mi portasse via la bambina. Così, spesso, la notte, quando tutti erano a letto, mi alzavo, mi sedevo in soggiorno e davo sfogo a tutte le mie ansie. Avevo attacchi di panico praticamente tutte le notti, stavo ore seduta al buio, in salotto, a fissare il pavimento, finché il sole non sorgeva, tornavo in camera, asciugavo le lacrime e facevo finta che nulla fosse successo. Andai avanti così per un bel po'. Non avevo nessuno con cui parlare, con cui sfogare le mie paure, e le poche persone, magari colleghi o mia sorella, a cui raccontavo qualche piccolo stralcio dei miei problemi, sembravano lontani, distanti, era come se non mi capissero. Vedere Serkan mi faceva rabbia, volevo di nuovo indietro quella vita che lui mi aveva strappato.
Passò un mese, e andò tutto ancor di più a rotoli.
Si sa, non c’è mai fine al peggio
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Fra le pieghe dell'odio
General FictionHande Demir è un medico legale di ventisette anni, convive con la sua migliore amica Nila da tre anni e crescono insieme la figlia di quest'ultima, dopo che suo padre l'ha abbandonata. La loro vita sembra andare a gonfie vele, se non fosse che la lo...