After the match

284 31 3
                                    

|HARRY'S POV|
Subito dopo il fischio finale dell'arbitro, rientrammo all'interno dello spogliatoio: sicuramente non soddisfatti del tutto.

Volevamo avere la vittoria, ma soprattutto, non deludere il coach dopo tutto l'orgoglio che aveva mostrato nei nostri confronti, anche per un semplice allenamento fatto con l'impegno adeguato.

Sapevo che la mia squadra avesse giocato una partita più che eccellente: ma se la palla, non finì in porta nemmeno una volta, la colpa non era di nessuno se non nostra.

Bisognava assumersi le proprie responsabilità, riconoscere di non aver eseguito tutto perfettamente, motivo per il quale non trovammo la vittoria dalla nostra parte.

E sicuramente, ricoprendo il ruolo del capitano, questo peso ricadeva un po' più sulle mie spalle: proprio per questo il nervosismo non fece che aumentare.

Ci sedemmo sulle panchine, ci fu un leggero brusio, probabilmente di confronto sulla partita, tra i miei compagni: io mi limitai a chinare la testa e a chiudere gli occhi, con aria sconfitta.

Questo momento fu interrotto dall'apertura della porta, sapevo benissimo il discorso che ci aspettava da parte del mister: in società di una certa importanza, come la nostra, o si vince o si vince, non c'è molta scelta.

"Non posso negare che abbiate giocato bene: ma come abbiamo visto questo non basta, se abbiamo solo pareggiato significa che non abbiamo dato tutto.
La formazione non è sicuramente definitiva, se vedrò qualcuno di voi non dare il massimo,in questi giorni prima della prossima partita, non esiterò a rimuoverlo dagli 11 titolari. Ora testa alla prossima" disse rigido.

Non era pienamente soddisfatto: lo si capiva dal tono, ma era comprensibile, voleva qualcosa di più da noi.

Ci lavammo e vestimmo, in completo silenzio, i miei compagni provarono a tirarmi leggermente su il morale, incoraggiandomi sul fatto che avessi giocato bene: ma non era quello il fatto che mi faceva innervosire a quel modo.

Il fatto di aver guadagnato un solo punto in classifica, non aver vinto, aver provato molteplici volte a mandare la palla in rete e non esserci riuscito: era quello che mi faceva infastidire così tanto.

Pur essendo uno dei primi ad essere pronto, come sempre, ci aspettammo per uscire tutti assieme.

Stavo salendo le scale, per raggiungere la mia stanza, all'interno del convitto: diedi un occhiata velocemente al nome inciso sulla porta affianco alla mia.
E come previsto le mie previsioni non si sbagliavano: Tomlinson, coach's Doncaster Rovers, così citava.

Entrai nella mia stanza, sapevo che sarei rimasto amareggiato per il risultato, sicuramente per diversi giorni.

Mi misi qualcosa di più comodo e mi affacciai alla finestra: le calde lacrime cominciarono a scorrere sulle mie guance.

Era il mio modo per sfogare tutta l'adrenalina e il nervosismo accumulato: odiavo quando succedeva, proprio perché non riuscivo a fermarlo, dato che il mio corpo usava quel metodo per liberarsi.

Mi accasciai sul letto e aspettai solamente che si placasse da solo, convinto, che come ogni volta, successivamente, mi sarei sentito un po' meglio.

Non ero mai stato abituato ad esprimere quello che provavo, essendomi allontanato dalla mia famiglia, per inseguire il mio sogno, a soli 11 anni, avevo normalizzato il fatto di tenermi tutto dentro.

Il nervosismo e l'adrenalina che stavano venendo fuori si mischiarono all'insoddisfazione, per questo, il mio corpo fu scosso da dei singhiozzi.

Questo metodo di sfogo mi dava particolarmente fastidio, e senza successo, provai a placarlo, probabilmente rischiando di farmi solo del male.

Due battiti arrivarono dalla porta, non poteva essere nessuno dentro quell'istituto, se non Louis: ne ero perfettamente cosciente.

Ma per quanto mi riguarda, non ero io a decidere quando fermare quel tipo di pianto.
I muri che dividevano le diverse stanze, erano fatti di carton gesso, materiale che faceva solo presenza: si sentiva qualsiasi cosa da una stanza all'altra.

Non ci misi molto a capire che mi aveva sentito piangere, ecco un altro motivo, per il quale, odiavo questo metodo di sfogo.
Nonostante tutto le lacrime e i singhiozzi, non accennarono a calmarsi.

Il mister provò a bussare un altro paio di volte alla porta, ma senza ricevere risposta, capì che era aperta e decise di entrare.
Pur sapendo di non essere più solo, rimasi comunque seduto con lo sguardo verso la finestra, dandogli le spalle.

"Harry?" chiese probabilmente non capendo che mi stesse prendendo.
Ma anche in questa occasione, non lo degnai di una risposta, dato che le mie frasi sarebbero state spezzate dai singhiozzi.

Venne a sedersi sul letto di fianco a me, passandomi una mano tra i capelli,facendomi posare la testa sulla sua spalla, come per tranquillizzarmi di quello che stava succedendo.

Riconoscevo il fatto che pur essendo molto rigido e severo nello svolgere il suo lavoro, era una persona davvero comprensiva ed empatica.

"Che succede?" mi chiese quando i singhiozzi e le lacrime si calmarono del tutto, essendomi sfogato completamente.

"È tutto apposto" gli dissi non distogliendo lo sguardo dalla finestra, la quale, affacciava sulla strada.

"Harry, che succede?" disse non credendo nemmeno poco alla risposta che gli avevo dato in precedenza.

"È tutto apposto, veramente" risposi impuntandosi sulle parole che già avevo pronunciato.

"Quando sono entrato non sembrava, ti sentivo piangere e singhiozzare dalla mia stanza"
"È per oggi, per la partita" fu un grande errore riportare alla mia mente quei ricordi recenti, dato che le lacrime ricominciarono a scorrere.

"Harry" disse con un sospiro finale, probabilmente dispiaciuto a vedermi in quello stato.
"Il discorso che oggi vi ho fatto nello spogliatoio era di mio dovere, non pensò abbiate dato tutto quello che avevate, quello che ho detto, lo penso. Ma posso assicurarti che tu hai giocato più che bene: c'è da dire che abbiamo avuto anche parecchia sfortuna" disse cercando il mio sguardo.

"E se sono andato bene perché non abbiamo vinto?" chiesi continuando a guardare fuori dalla finestra, come se ci fosse qualcosa di particolarmente interessante.

"Perché non puoi giocare da solo, per quanto il tuo gioco mi piaccia, non puoi scontrarti contro 11 uomini" mi piaceva anche questo di lui: riusciva a tirare fuori del buono anche dove non c'era, o non era evidente.

"È per questo che al primo allenamento ti ho chiesto se te la sentissi di fare il capitano, mi hanno raccontato tutto il peso che ti sei portato sulle spalle lo scorso anno, e l'ultima cosa che volevo è vederti stare così" mi disse

"Questo non mi farà cambiare idea, sicuramente avrò più responsabilità, ma questo non mi pesa, se ho un coach che sa fare il proprio lavoro" dissi con voce assonnata.

Restammo a parlare per una decina di minuti, dopodiché, vedendomi stanco, mi consigliò di riposare: dato che il giorno seguente avremmo avuto un altro allenamento.

Non potevamo permetterci di fermarci, dato che le partite si susseguivano, una dopo l'altra.

"Cerca di riposare, non tormentarti ancora con gli stessi pensieri, fidati di quello che ti ho detto prima" mi disse successivamente chiudendo la porta.

Mi fidai effettivamente di quello che mi aveva suggerito, senza esitazioni, tanto che riuscii a prendere sonno all'istante.

DONCASTER ROVERSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora