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A volte ti lasciano rimanere un'ombra, gli altri.

È il momento del mio piccolo cinema in quell'angolino di stanza 25 dove, mentre addento una frantumata fetta biscottata con la marmellata di ciliege fin troppo zuccherata, attendo il ripetersi del solito film. Oggi però gli attori mi paiono così esausti di recitare lo stessostessostessostessostesso copione che relagano al mio stessostessostessostessostesso una sgradita malinconia che mi rimane pesantemente sepolta sopra la lingua rubandomi anche la fame. Io quella malinconia la sento. La vivo. Mi sento grigio, privato anche dei colori. Eppure c'è un cielo così azzurro sopra questa scatola tutta sciupata.
Stringo la polvere con le dita dei piedi e le briciole con le dita delle mani.
Stamattina mi sento come quella fetta biscottata.

Nei momenti vuoti posso solo vagabondare per l'istituto sbirciando in ogni buco, iride e respiro il dolore degli altri vestiti di lacrime, che sono le ultime rimaste a non averli abbandonati. Povere lacrime. Chi glielo dice che gli altri vorrebbero fossero le prime ad abbandonarli?

Mi addentro per il lungo corridoio dell'istituto, sulla soglia della nostra camera trovo Luca seduto sul suo letto che torturando il suo fottuto lenzuolo guarda un omone con il camice bianco indaffarato a togliere la lampadina. «Luca ha detto che per te possiamo levarla» mi dice «Ma ora vai a parlare con Anna perché questa lampadina era qua per il tuo problema, quindi deve assicurarsi che tu non abbia poi una ricaduta» guardo il cartellino attaccato al suo petto e vorrei domandargli «Quando mai sono migliorato Davide?»

Le fossette del cazzo di Anna mi guardano «Devi dire essere fiero di te Simone» mi dice «Ieri sei riuscito a parlare e a dormire con una sola lampadina. Come ti senti?»
Ho capito perché nell'istituto ci sono stanze così dannatamente spoglie, come l'ufficio di Anna: in questo modo io e gli altri abbiamo modo di incastrare tra quattro mura le chiassose agonie, di farci soffocare quella bastarda della nostra malattia e di colmare quel vuoto sputando fuori i mostri che vivono in noi. Riempirlo con le cose sbagliate per riempire di nuovo noi con le cose giuste. Perché a noi rotti le cose vuote fanno paura.
Nell'istituto ci sono stanze così dannatamente spoglie eppure che caos che trovo se torno in me.
Io sono ancora in piedi. La mosca che gironzolava sopra di noi si è bloccata, come se anche lei stesse aspettando me. Il suo corpo minuscolo si attacca sfinito sul vetro della finestra chiusa.
Chissà se si è stancata pure lei di questo ufficio dannatamente spoglio, se quella fessura tra le due ante è un buco abbastanza grande dal quale potrebbe passarci in mezzo e abbandonarmi qua, se le va. Chissà se magari quel vetro è il suo angolo di pace e al contrario sta cercando di fuggire da quel disordinato di mondo all'aldilà di quel vetro.
Chissà che cazzo prova quella mosca.
Sento un ronzio simile al suo nel petto e penso che potrei avere un po' di parole, che forse sì, i mostri non se le sono divorate tutte, anche se a furia di urlare a me stesso non so bene come metterle in fila o cosa potranno significare, ma comunque apro la bocca «Uno schifo» le dico, la voce attutita e la faccia rimpicciolita sulla mia maglietta «Uno schifo. Mi sento comunque uno schifo» ma sono ancora in piedi.

Un piede nell'incubo e l'altro nella favolaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora