IV

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Devi lasciar cadere tutto quello che vuole cadere.

«Hai intenzione di dirmi cosa succede?»
No, certo che no.
Mi guarda nello stessa modalità di stanza 27, spostando i suoi occhioni grandi grandi grandi da un occhio a un altro e va avanti per 13 minuti.
Ho sospirato sperando la finisse di fissare tutti i miei difetti. Nel frattempo le si disegna in faccia la stessa fossetta nella guancia destra. Stessostessostessostessostesso.
C'è qualcosa di ipnotizzante nella velocità con cui il mio sangue sporca la limpida garza che Anna sta avvolgendo alla mia mano.
Eccolo, di nuovo.
Quell'attimo in cui io, bambino e uomo, sono alle prese con i miei mostri e mi sento imprigionare da qualsiasi aspettativa di cura che mi si richieda.

«Dai Simone provaci. Devi provarci se vuoi stare meglio»
Eccolo ancora, di nuovo.
Quell'attimo in cui io vorrei alzarmi e andare via, nel mentre urlare «Lei la smetta di dirmi quello che devo fare!» poi tornare nella mia e solo mia idea di calma universale, stare di fronte a quel muro verde e le nocche delle dita spaccare, poi, perché no, pure la fronte e anche il corpo di quel Simone, o quel che ne rimane.
Quando mi sento così non va bene.
Ma capite che sono tanto stanco di questi omoni che non vogliono lasciarmi andare?
Perché non mi lasciate andare? Ve lo chiedo perfavore lasciatemi, lasciatemi stare!
Che differenza farei lassù?
E quel che vorrei io se lo è mai domandato qualcuno?
Ci sarebbe un non so che di singolare e di rassenerante nel camminare tra le nuovole.
Come ve lo spiego,
inebriato di follia brinderei con la mia pazzia e viaggerei per tutto il cielo, fotograferei la Luna e la ringrazierei per essermi sempre stata vicino.
«Sai già cosa succede» le dico.

Mentre io sto a terra, col sangue intorno al posto dei fiori, ti sorriderei Anna, per poi augurarti il meglio, ma quello vero, che solo i malati sanno individuare: quella voglia matta di non voler mai smettere di respirare.
Ma non sarei mai riuscito a sparire, se Anna avesse continuato a fissarmi, con il lenzuolo e le garze a bloccarmi.

«D'accordo» aveva detto «Io vado, qualcuno vorrebbe parlarti»
Aveva una maglia a maniche corte, un album da disegno e delle matite al carboncino.
«Stai bene?»
«Si» avevo detto «Si sto bene»
Non credevo davvero a quello che stavo dicendo. Nemmeno Manuel credeva a quello che stavo dicendo.
«Vuoi parlare?»
«No»
«Vuoi che vada via?»
«No»
Si guarda intorno «Ok» e si siede su una sedia nell'angolo della stanza.
«Bisogna che qualcosa finisca» dice posando lo sguardo sulle mie ferite «e che qualcosa cominci» e poi su di me.

«Posso guardare?» gli chiedo indicando l'album.
Aveva scosso la testa «No. Ti faccio un ritratto»
«E se non voglio che qualcuno mi faccia un ritratto?»
«Come faccio a diventare bravo se non faccio pratica?»
«Di solito non si paga il proprio modello?»
«Solo quelli belli»
«Quindi io non sono bello?»
Manuel aveva sorriso «Non dire cazzate»
«C'è modo di fermarti?»
«No. Stai fermo»
«Come se riuscissi a muovermi»
Manuel mi guarda e ridiamo insieme «Fammi bello» avevo detto.
«Zitto» aveva detto «E fermo»
Manuel mi stava disegnando e io lo guardavo.
Lo guardavo e basta. Lo guardavo, lo guardavo, lo guardavo e basta. Pensai che questo sarebbe proprio diventato il mio film preferito.

«Ho finito» dice dopo un tempo che parve infinito.
«Manuel mi hai fatto triste»
«Lo so» aveva detto.
Odiavo che avesse visto chi ero «Non sono sempre triste»
«Lo so» aveva detto «Vorrà dire che dovrò farti un altro ritratto»
«Mi farai vedere gli altri disegni almeno?»
«No»
«Perché?»
«Per lo stesso motivo per cui tu non puoi raccontarmi i tuoi incubi»

Un piede nell'incubo e l'altro nella favolaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora