Uno

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Sono le sette del mattino, mi guardo allo specchio: ho l'aria di una che vuole suicidarsi all'istante, meglio che la cambi, altrimenti passerei come "quella dall'anima dark".

«Su Zilla» mi dico, saltellando sul posto «tu sei forte! Fortissima! Supererai anche questa prorompente giornata di merda, come sempre! Se tu lo vuoi, tu lo farai! Una-di-noi! Winx!».

Smetto di saltellare e do un'ultima occhiata al mio riflesso, prima di togliermi il pigiama e dirigermi verso l'armadio. Apro le ante e inizio a frugare in quello che é assolutamente un casino: felpe accartocciate su altre felpe, calzini spaiati e leggins che sembrano volersi sparare piuttosto che starsene infilati in quel cubicolo oscuro, fatto di disperazione e normalità.

Pesco a caso una felpa grigia e un paio di leggings neri. Toh uno splendido abbinamento costruito in meno di dieci secondi, un record mondiale per i miei standard da "fanatica dei Top Model". Quando avevo all'incirca nove anni volevo diventare una stilista, ero convinta che qualsiasi sacchetto dell'immondizia, scatolone di carta e lattina di passata di pomodoro, potesse diventare un capo unico all'insegna di una sfilata di moda, e non di una tizia scappata fuori da una discarica, inseguita da Alì Babà e i quaranta ladroni. Che bambina fantasiosa che ero...

Una volta vestita scendo in cucina e mi ingozzo di biscotti, una di quelle che considero le sette meraviglie della mia vita. Mia madre mi guarda, nella sua mano stringe una tazza di caffè, mentre nell'altra una fetta biscottata mezza masticata.

«Oggi hai qualche verifica?» mi chiede.

«Storia» rispondo

«E sei pronta?».

Annuisco. Ho studiato e mi sono impegnata, quindi non sono preoccupata. Quello che realmente mi preoccupa è la giornata che dovrò passare, immersa tra gli studenti della mia scuola. Già riesco ad avvertire i loro sguardi su di me, i loro bulbi oculari che ruotano, intenti a osservare e perlustrare ogni centimetro del mio corpo. Rabbrividisco al solo pensiero e cerco di dimenticarmene al più presto, mentre mi alzo dalla tavola e acchiappo la cartella.

«In bocca al lupo!» mi augura mia madre, prima che io possa svanire dalla cucina e buttarmi nella mia solita vita quotidiana.

Mormoro svelta un "grazie" ed esco, camminando poi a passo svelto sul marciapiede, sulle note di "Courtesy Call" sparata a pompa nelle mie cuffie. Un giorno forse diventerò sorda, ma me ne frego altamente, la musica mi tiene viva, a tutte le ore del giorno e della notte.

Tengo le mani nella tasca della felpa, mi maledico per non essermi messa una giacca: sto congelando. I miei occhi sono fissi sulle mie Vans nere, le mie fantastiche compagne di vita.

Mentre cammino non alzo mai lo sguardo. Non nego di essermi beccata qualche palo in faccia facendo così, ma ormai sono diventata talmente tanto brava a camminare in questo modo che ho sviluppato un sesto senso: percepire gli ostacoli e scansarli.

A volte mi chiedo se in una vita passata fossi stata un insetto, una formica magari, con quelle due belle antenne che captano tutto. Chissà come starei con le antenne... Dio, forse diventerei lo zimbello della città e gli sguardi delle persone colerebbero su di me come lava incandescente dai pendii di un vulcano. Sospiro e scuoto la testa, completamente persa in una conversazione con me stessa.

Balle e fantasticazioni su formiche a parte, i motivi che mi portano a camminare in questo modo, portandomi sempre a rischiare la vita, sono due:

1) Non pestare le cacche dei cani che gentili padroni scelgono di lasciare sui marciapiedi, in attesa che lo scemo di turno le prenda in pieno;

2) Non incrociare sguardi di persone (e cioè la principale).

Non prendo mai l'autobus, lo detesto, è sempre così affollato e stretto che spesso mi manca l'aria, e l'unica cosa che desidererei fare in uno di quei momenti, è saltare giù dal finestrino, per poi rotolare a terra in cerca di salvezza e aria pulita. Ma anche se fosse possibile buttarsi giù dal finestrino, non lo potrei fare: attirerei l'attenzione delle persone.

***

Arrivata in classe mi lascio scivolare sulla sedia, e l'incontro del legno freddo della sedia con le mie chiappe calde mi fa rabbrividire. Mi squaglio sul banco, lasciando scivolare la testa sul piano liscio e giallastro di quest'ultimo. Con un polpastrello sfioro una scritta incisa sull'angolo destro del banco. C'è scritto: "Rebecca puzza".

Provo molta compassione nei confronti di questa Rebecca, anche se non so minimamente chi sia. Magari la sua scarsa igiene deriva da qualche sua insicurezza, o magari la povera e piccola Rebecca abita in un quartiere dove l'acqua è come l'isola di Peter Pan: "Non c'è". A volte mi perdo spesso a pensare a chi fosse Rebecca e quale razza di vita doveva condurre per far puzzare le sue ascelle come un campo di cipolle marce.

I miei pensieri si interrompono, sento dei passi. Scatto seduta, cerco di essere il più normale possibile e afferro il primo libro a caso dalla cartella abbandonata sul pavimento. Mi fingo assorta da una pagina aperta totalmente a caso, pasticciata dalla sottoscritta con disegnini di fiori, stelle cadenti e faccette sorridenti, dalle quali spuntano nuovolette di fumetti con scritto: "Preferirei strisciare la faccia sull'asfalto ardente piuttosto che ascoltare questa lezione :)".

"Che cazzo di problemi ho?" penso, mentre scruto le vignette alquanto imbarazzanti.

Intanto i passi si sono avvicinati e scorgo la figura di Margot, la secchiona mezza fulminata, che si precipita in classe sbattendo la cartella a terra e il libro di storia sul banco.

«Mio Dio! Devo ripassare! Devo ripassare!» mormora, mentre con le mani nei capelli legge a tutto spiano pagine su pagine.

A un certo punto si blocca e si volta... Verso di me. Ho la testa piegata sulla pagina scarabocchiata, ma percepisco perfettamente il suo sguardo fisso sulla mia fronte. Ormai è così, sono fin troppo brava a capire se qualcuno mi sta guardando.

«Oh, ciao Zilla» mi saluta, avvicinandosi a me «neanche me ne ero accorta che tu fossi qui».

Faccio un enorme sforzo per alzare la testa e fissarle il mento, mentre dentro di me la insulto male perché si sta avvicinando troppo. Perché devo essere sola in queste situazioni? Perché non può andarsene semplicemente a fare in... paese, lasciandomi vivere la mia vita in santa pace? Se non avessi questa fobia, la ragazza-demone che è in me le sarebbe già balzata addosso per riempirla di sberloni, almeno fino a quando il suo sedere e la sua faccia non si sarebbero scambiati di posto. Già, Margot mi sta proprio sulle palle, se non si fosse capito.

«Ciao Margot» dico, mentre persisto a fissare il suo mento e ridere imbarazzata come una cretina.

Sembra idiota, ma fissare il mento di una persona equivale quasi a guardarla negli occhi, o almeno, secondo la prospettiva di chi riceve lo sguardo appare così. Percorro con gli occhi il perimetro del suo mento, lo osservo bene, notando che un piccolo neo a forma ovale occupa la parte inferiore di esso.

«Pronta per storia?».

Eccola. La domanda-urto. Esiste una domanda più idiota del chiedere a qualcuno se sia preparato per una verifica? Secondo me no, equivale a dire: "Stavi dormendo?" a qualcuno che hai appena svegliato, oppure: "Avete l'acqua?" dopo che una persona che ti ospita a casa sua ti chiede se gradisci qualcosa da bere.

Stringo i pugni, avrei davvero una voglia matta di strangolarla, ma per farlo dovrei guardarla negli occhi e toccarla, quindi...

«Prontissima!» rispondo con un finto entusiasmo.

Margot sembra quasi stia per mandare avanti la conversazione, quando, ad un certo punto, in classe ci raggiungono altri compagni che iniziano a chiacchierare e a fare casino.

Grandioso! Un'altra giornata in una gabbia di matti!

Sospiro e mi accascio sullo schienale della sedia, mentre guardo fuori dalla finestra. La campanella di inizio lezioni squilla. La professoressa di Italiano ci raggiunge e ci accoglie con un sorriso. Poi si siede alla cattedra e apre la sua cartelletta, e io mi immergo tra i testi di antologia. 

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