10.

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Deirdre

Quella notte non riuscì a chiudere occhio. Si insultò ancora e ancora e ancora. Era stata così sciocca. Seduta sul letto a guardare il sole sorgere, con le gambe strette tra le braccia, non riusciva a pensare ad altro. Era scappata. Dopo quello stupido «Non posso», senza dargli nessuna spiegazione, aveva raccolto le sue scarpe ed era fuggita. Lasciandolo solo. Di nuovo. La paura l'aveva sopraffatta e si era sentita costretta ad allontanarsi. Sapeva di aver fatto la scelta giusta, il rischio era troppo alto, ma pur essendosi convinta di questo non era riuscita ad impedire alle lacrime di sporcarle il viso.

Un leggero bussare la distolse dai suoi pensieri. Sbattendo le palpebre ritornò alla realtà rendendosi finalmente conto dell'ora che si era fatta. Il sole era oramai sorto e se si fosse sforzata, avrebbe potuto sentire Rosemary trafficare in cucina.

«Avanti.» La voce le grattò la gola e la porta si aprì senza far rumore. Ne sbucò la testolina bionda di Enan che le rivolse un piccolo sorriso. Ricambiò.

Era da una settimana abbondante che aveva preso quell'abitudine. Prima di scendere a far colazione, bussava alla sua porta e si intrufolava con lei sotto le coperte. Notò immediatamente il suo sguardo preoccupato quando si accorse del letto ancora intatto. Velocemente le trotterellò accanto, studiandola con qui suoi grandi occhi da bambino.

«Stai male?»

Nella sua ingenuità, il bambino, aveva posto l'unica domanda a cui non avrebbe mai voluto rispondere. Sì. Dannatamente male.

Riusciva a vedere ancora l'espressione, prima confusa e poi cupa, di Søren quando aveva capito che non sarebbe rimasta. Che se la stava svignando come una codarda.

Sorrise per non far preoccupare il piccolo. Aveva solo sei anni e l'ultima cosa di cui aveva bisogno era vederla perdere il controllo.

«No, mi sono solo svegliata presto. Vieni.» Lo fece stendere con la testa sulle proprie gambe accarezzandogli dolcemente i capelli per rassicurarlo.

Perché non era rimasta? Perché doveva essere sempre così vigliacca? Aveva avuto paura, così paura di farsi del male che non si era nemmeno resa conto di essersene fatta il doppio andandosene in quel modo.

Era sempre stata una persona che affrontava i problemi a testa alta, senza mai lasciarsi intimidire, ma l'amore... L'amore era ben altra cosa.

Aveva amato talmente tanto nei suoi ventitré anni. I suoi genitori. Sua nonna. E che fine avevano fatto? La morte li aveva presi con sé, senza se e senza ma, in un giorno qualunque. Glieli aveva strappati dalle mani senza pietà lasciandola con un'immensa voragine nel petto. Li aveva amati tanto, troppo. E lei era stanca di amare. Stanca di aspettare che qualcuno glieli portasse via di nuovo. Stanca di soffrire. Non voleva più provare quella disperazione, mai più. Era diventata forte, ma a quale prezzo?

La sveglia del suo vecchio telefono trillò fastidiosa. Un altro giorno aveva inizio e le consegne al negozio di fiori non avrebbe di certo aspettato lei. Scostò delicatamente Enan, che nel frattempo si era addormentato, lo coprì con la morbida coperta ed uscì lasciando la porta socchiusa. Scese silenziosamente le scale. Poteva sentire Rosemary già all'opera in cucina, si fermò un attimo, prese coraggio ed entrò.

Il profumo della tipica colazione scozzese non riuscì a stuzzicarle l'appetito, fece un timido sorriso alla donna e andò a sedersi su quella che, oramai, era diventata la sua sedia.

«Buongiorno Raggio di Sole! Uova?»

La giovane scosse il capo. «No, non ho molta fame. Prendo solo del succo di mela.»

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