Guardai la valigia vicino all'armadio, stranamente piena. Se avessimo dovuto svuotala di nuovo, quella volta nessuno dei due avrebbe retto il colpo.
Udii l'ormai familiare rumore del carrello che strisciava sul pavimento, la ruota anteriore destra era difettosa, ma nessuno aveva intenzione di cambiarla.
Giada, l'infermiera, arrivò in camera alle sei in punto, pronta ad effettuare il prelievo. Tentammo di non svegliarlo ma fu impossibile, un ago nella vena non passa di certo inosservato.
Non si lamentò, dopo aver spalancato gli occhi restò calmo, poi reclamò le mie premure, che fui immediatamente pronta a concedergli.
Avrei voluto dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma non volevo essere quel tipo di persona per mio figlio, non potevo dargli false speranze quando quello che ci si presentava davanti era un'incognita.
Continuammo la nostra routine, fingendo che fosse un giorno come tutti gli altri, un brutto giorno come tutti gli altri. Bevvi la mia camomilla, con i consueti tre biscotti inzuppati dentro, chiamammo Paulo, lessi un altro po' del mio libro, e si fece presto sera.
"Mamma, ho tanto sonno, posso mettere il pigiamino?"
Volevo restasse sveglio un altro po', speravo l'oncologa ci chiamasse e ci dicesse che potevamo tornare a casa, seppur sapessi bene che l'orario per le dimissioni fosse passato da un pezzo.
"Certo amore, preferisci quello di Superman o di Batman?"
Scelse il primo, ovviamente.
Da Eva, 11:23 p.m. :
"Per oggi nessuna novità"
Da Paulo, 11:24 p.m. :
"Vuoi parlare?"
Da Eva, 11:26 p.m. :
"No, mi dispiace.."
Da Paulo, 11:29p.m. :
"Okay, ci vediamo domani allora"
La mattina seguente sarebbe tornato a Torino per dare indicazioni sul trasloco, poi nuovamente in Portogallo, e una volta completato il ritiro avrebbe finalmente raggiunto la capitale. Non gli sarebbero mancate le comodità, né a lui né alla sua signora, dato che avevano affittato la villa di Diawara: un posto di lusso, con giardini enormi e fontane, un po' come un ristorante ma che in realtà era un'abitazione per due.
Per quattro anzi: Kaia e Bowen, i loro due akita, erano inclusi nel pacchetto. Paulino non vedeva l'ora di potergli accarezzare, gli vedeva scorrazzare il giro in chiamata e nelle storie che gli mostravo, direttamente dal profilo Instagram dedicatogli dai padroni. Ne era innamorato, e mi chiedeva spesso di poterne avere uno tutto per lui, ma per me era già abbastanza difficile badare ad un piccolo uomo, per altro con il suo debole sistema immunitario non lo reputavo il massimo.
Passai la notte in bianco, poi alle 09:02 del mattino un lampo di luce: "Signora Benedetti, la dottoressa Giannuzzi la attende in studio".
Balzai in piedi, non riuscivo a crederci.
Gli feci una carezza, alzai lo sguardo verso Diana, la dodicenne affetta dallo stesso orribile male, dalla quale ricevetti un occhiolino rassicurante, e poi finalmente mi alzai.
Per un attimo pensai di risedermi, tremavo troppo, ma nonostante il mix di emozioni, il non sapere cosa aspettarmi, dovevo affrontarlo.
Mi accomodai sulla sedia girevole, di fonte al tavolo in vetro sul quale erano adagiati tutti i documenti di mio figlio. Dovetti resistere alla tentazione di girare su me stessa, nonostante avessi ventisette anni e sapessi bene che fosse necessario mantenere un certo contegno, mi tocca ammettere che lo avrei fatto molto più che volentieri.
Come potevo essere una mamma bacchettona? Indipendentemente dal mio passato, non lo sarei mai stata poiché la vera protagonista delle marachelle, in realtà, ero io stessa.
"Lo so che ha sofferto tanto, è stata una delle mamme più forti qui dentro" esordì, e fu in quel preciso istante che quasi mi venne un mancamento.
"Paulo ha ereditato da lei la capacità di andare avanti e non mollare nonostante tutto. Devo dirle che quando siete arrivati qui per la primissima volta non avrei mai sperato di riuscire a raggiungere questi livelli, la situazione era veramente tragica. Per fortuna non mi sono voluta arrendere, come tanti miei colleghi al mio posto avrebbero fatto, è per questo motivo che oggi siamo qui"
Smise di parlare, afferrò la Bic nera dal porta penne alla sua destra, e iniziò a firmare un fascicolo di una ventina di pagine.
"Grazie per il suo coraggio, spero di rivederla il più tardi possibile, o addirittura mai più"
Una lacrima, sottile e limpida, rigò la mia guancia fino ad essere intrappolata dalle labbra. L'assaporai: salata. Era quello il sapore della felicità, della libertà, di un nuovo inizio?
Mi vergognai molto quando iniziò a colarmi il naso, oramai scossa da un pianto profondo, e notai che non avevo alcun pacchetto di fazzoletti. Dovetti rimediare strisciando il dorso della mano sotto le narici, speranzosa che quel gesto passasse inosservato di fronte alla grande gioia che provavo in quegli attimi.
Le strinsi forte la mano, non volevo lasciarla andare, era stata la mia guida per molto tempo. La attirai in un abbraccio, dal quale anche in quel caso feci fatica a staccarmi.
Dovevo rientrare in camera, svegliare P, abbracciare anche lui per una quantità di tempo indefinita. Avrei dovuto chiamare Anna, mandare un messaggio sul gruppo dei colleghi che attendevano ansiosi, prenotare il pranzo in un buon ristorante per festeggiare, dato che a casa non c'era nulla da mangiare.
Le uniche cose che feci furono sedermi in sala d'aspetto, estrarre il telefono dalla tasca posteriore dei jeans, stringerlo forte e sussurrare: "Ehi Siri, chiama Pau".
"Pronto?"
In risposta singhiozzi, soltanto singhiozzi.
"Eva, che succede?"
Respiro profondo: "Remissione totale, torniamo a casa"
Silenzio.
"Tornate a casa"
Feci fatica a sentirglielo pronunciare, lo disse a voce talmente bassa che all'inizio pensai stesse farfugliando. Probabilmente era soltanto incredulo, non capace di gestire una notizia del genere.
Quante buone notizie avevo mai avuto l'opportunità di dargli? Nessuna.
Riattaccò.
Lo capì, nessuno era realmente pronto. Lo speravamo, sì, ma non ci credevamo più.
Era stato difficile gestire la malattia, sentirsi dire che dovevo esser preparata, che avrei dovuto organizzare il funerale. E lo feci, mi svegliai una mattina, andai dalle pompe funebri, scelsi la bara color bianco latte, i fiori, acquistai il loculo al cimitero. Richiesi un prestito, per poter pagare tutto. Non avevo ancora abbastanza soldi, gli avevo sperperati nelle mie di cure, prima di scoprire di essere incinta.
Ma non serviva più, niente di tutto quello che mi ero preoccupata di procurarmi. Il mio bambino ce l'aveva fatta.
Mi avvicinai piano al suo letto, si stiracchiava con delicatezza, e feci tutto quello che mi ero ripromessa di fare poco prima.
Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, mentre realizzava dei disegni da regalare ai suoi compagni di stanza, con la pretesa che non si sarebbero dovuti dimenticare di lui.
Era troppo piccolo per sapere che probabilmente, un domani, non avrebbe ricordato non solo i suoi amichetti, ma nemmeno quell'orribile esperienza. Non sarei stata di certo io però ad infrangere i suoi sogni e le sue speranze.
"Signore, l'orario di visite non è ancora iniziato"
"La prego, devo entrare assolutamente"
"Mi dispiace ma non è possibile"
"Lei non capisce, è di vitale importanza. Mi scusi ma passerò ugualmente"
Non avevo mai sentito gridare la caporeparto così forte.
"Signore si fermi! Chiamo la sicurezza!"
"Chiami pure" affermò con certezza.
A quel punto decisi di affacciarmi in corridoio, seppur un po' intimorita dall'impertinenza dell'uomo. Non feci in tempo a sporgere la testa fuori dalla soglia che venni investita dal barbaro soggetto, che tutto mi aspettavo tranne che fosse..
"Pau, che cazzo fai?"
Me lo scrollai di dosso, infastidita come poche altre volte mi era capitato di essere.
"Sono venuto a prendervi, non mi facevano passare"
"Lo vuoi capire che essere Dybala non ti riserva dei privilegi? Non te ne rendevi conto allora e non lo fai nemmeno adesso" sbottai.
Mi pentii immediatamente, delle parole usate nei suoi confronti. Improvvisamente calò il gelo tra di noi, fui costretta, o meglio mi sentii tale, di stare in silenzio mentre raccoglievo le ultime cose rimaste e controllavo se avessimo dimenticato qualcosa nell'armadio.
Salutai tutti, ringraziai dal profondo cuore chiunque mi fosse stato vicino, intenzionalmente o per obbligo poco importava. Ogni singola, minima azione aveva avuto enorme significato durante quel calvario.
Non volli credere ai miei occhi quando mi resi conto che finalmente indossavo dei jeans, tenuti nella borsa in attesa di quel momento. Mi venne da piangere al pensiero che avrei potuto recuperare la mia femminilità, l'autostima derivante della volontà di rendermi bella. Non avevo avuto voglia di farlo per molto tempo, avevo smesso di truccarmi, di pensare se un'acconciatura mi stesse meglio di un'altra. Non avevo più tinto i capelli, lasciando che la ricrescita prendesse il sopravvento.
Avrei potuto recuperare tutto: il tempo perso e la voglia di vivere.
"Sei venuto con la Jeep"
Quella macchina, piena di ricordi, che non avevo più avuto l'opportunità di vedere. Era sempre la stessa, mi sembrò strano non l'avesse cambiata con qualche modello più recente e all'avanguardia.
"Le altre sono già a Roma"
Seduta nei sedili posteriori, avendo lasciato il posto d'onore al piccolo, appoggiai la testa al finestrino, e fu inevitabile tornare indietro a momenti che forse avrei preferito non ricordare.
Vidi me, affacciata alla finestra del reparto di psichiatria, avvolta dalle pareti sporche color azzurro. Vidi Paulo, camminare verso la sua auto, sfregandosi numerose volte il viso. Lo vidi tirare un calcio alla ruota anteriore, poi aprire lo sportello e chiuderlo con un colpo secco. Mi vidi stringere forte i pugni lungo i fianchi, mentre una lacrima solcava la mia guancia.
Ritornai di colpo alla realtà, tremando così forte che improvvisamente udii: "Mamma, stai bene?".
Non un bel modo per terminare il viaggio che la mia mente aveva intrapreso, facendo si che mi notassero soprattutto, ma se avessi proseguito avrei stentato a riprendermi, e quella non era la giornata giusta per farlo.
"Dovresti dirmi dove devo andare"
Non riuscivo a parlare però, non potei rispondergli perché quelle cinque parole mi si schiantarono addosso insieme a tutto il resto. Restai inerme, guardando i suoi occhi che mi squadravano attraverso lo specchietto centrale.
Per fortuna ci pensò mio figlio, che tirò fuori dallo zaino il diario dell'asilo nido del reparto, dove c'era scritto l'indirizzo di casa. Era troppo sveglio per avere ancora tre anni, e mi odiavo per averlo reso tale.
Mi preoccupai del giudizio di quello che una volta era mio marito, a causa delle occhiatacce che mi lanciava, più spesso di quanto desiderassi. Poi smisi di curarmene, perché ormai non aveva più un ruolo rilevante nella mia vita, non sapeva nemmeno dove abitassimo, non era una ragione sufficiente per non interessarmi all'idea che si era fatto della nuova me?
Sospirai, continuare a mentire a me stessa non avrebbe fatto che peggiorare la situazione.
Dovemmo fare un po' di giri prima di trovare parcheggio, quando ci trovammo davanti alla porta d'ingresso feci fatica ad aprire, causa l'incessante tremore delle dita. Paulo posò la sua mano sulla mia, la avvolse e con fermezza girò la chiave nella serratura.
Riuscii a sussurrare un "grazie", che non venne considerato in confronto alla gioia del mio bambino di riavere tutti i suoi giochi preferiti di nuovo a disposizione, ma andava bene così, la cosa importante era che lui si sentisse finalmente al sicuro.
Chiesi scusa e mi congedai in camera, con l'intenzione di stendermi un po' sul letto, ma l'irruzione di Dybala, che non esitò a seguirmi, me lo impedì.
"Eva, che succede?" ripetè per la seconda volta in meno di dodici ore.
Si chiuse la porta alle spalle, appoggiandocisi sù. I suoi gesti spontanei non erano cambiati affatto.
"Non dovremmo lasciarlo solo, ti prego va da lui"
"Se la sta cavando benissimo, voglio sapere come stai tu"
Mi voltai mostrandogli la schiena, incrociai le braccia e portai indice e pollice alla base del naso, stringendo leggermente. Fu allora che improvvisamente le sue mani si posarono sulle mie spalle, nel tentativo di confortarmi.
Mi irrigidii, seppur volessi con tutta me stessa che ciò non accadesse. Fece scivolare le braccia lungo i miei fianchi, avvolse il mio ventre e sentii il calore della sua guancia sulla mia nuca scoperta.
Spontaneamente mi allungai fino ad essere in grado di toccargli i capelli.
"È tutto apposto Nena" disse, per poi aggiungere: "Finalmente avrete la vostra pace".
Rimuginai a lungo su quella sua frase, sul fatto che in un universo parallelo saremmo potuti stare ancora insieme, con un bambino tutto nostro, che ero stata proprio ad impedirgli di avere. Avevo fatto le mie scelte però, ed ero consapevole di non potere, oltre che volere, tornare indietro.
"Dovresti andare da un parrucchiere, e anche da un'estetista"
Ridacchiammo insieme per le mie squallide condizioni, gli promisi che lo avrei fatto prima o poi, e la nostra discussione terminò ben presto con un obbligo da parte sua di assolvere quei compiti nel pomeriggio.
"Hai passato fin troppo tempo con Paulino, se resterà con me un paio d'ore non accadrà nulla" mi aveva detto, e io mi ero lasciata convincere.
Poco dopo ci eravamo recati in cucina, aveva aperto il frigorifero certo di poter preparare qualcosa di sfizioso, ignorando il fatto che mancassi di casa da mesi.
"Allora è così che sono i frigoriferi delle donne sole" esclamò.
"Direi di sì, sono.. vuoti" risposi, e sorrisi talmente tanto che le guance mi fecero male.
Ordinammo tre pizze margherita, una birra e due succhi di frutta alla pera. Per cena forse gli avrei portati in un bel ristorante, se ne avessero avuto voglia.
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Él 2 ||Paulo Dybala
FanfictionEva, 27 anni, insegnante di pianoforte e musica Paulo, 28 anni, nuovo giocatore della Roma Se ami qualcuno lascialo libero. Se torna da te, sarà per sempre tuo, altrimenti non lo è mai stato. -Richard Bach Sequel di: Él ||Paulo Dybala Link: https:...